La relazione tra la società e la natura

Di Alessandra Ciattini

Dialettica natura/società

Alcune correnti di pensiero, compreso il marxismo, sia in ambito naturale che sociale si richiamano al concetto di totalità (dialettica della natura, sociologia di Durkheim etc.), in base al quale le parti di un organismo, sia la sua natura sia la società, non hanno un’esistenza indipendente dalla somma, anzi sono tali proprio perché collocate in un certo insieme. Inoltre, in virtù della loro interrelazione, le parti e il tutto evolvono in maniera congiunta.

L’obiettivo di questa impostazione è rompere con il riduzionismo, che deriverebbe dal metodo cartesiano, secondo il quale per comprendere il tutto occorre ridurlo alle sue parti. Altro obiettivo della stessa prospettiva è dimostrare che la scienza, in quanto insieme di conoscenze prodotte da una certa civiltà, ne riprende inevitabilmente le caratteristiche e, in questo senso, non è neutrale. Obiettivi di somma importanza per chi vuole dar vita ad una scienza che stia dalla parte della maggioranza dell’umanità, come Richard Lewins e Richard Lewontin che negli anni 60, schierati contro la disastrosa guerra in Vietnam, dettero vita al gruppo teorico e pratico Science for the people.

La nozione di Capitalocene si richiama al su menzionato principio (collettivismo epistemologico), cui si oppone in ambito sociologico il cosiddetto individualismo sociologico, che descrive il formarsi della società come l’associarsi di un certo numero di individui, i quali restano portatori delle loro specifiche qualità. In questo caso, come nell’ambito naturale (natura/cultura), si sviluppa un forte dualismo (società/individuo), che risulta irresolubile, e le somiglianze mentali tra i singoli sono spiegate in ultima istanza ipotizzando l’esistenza di un’astratta natura umana, di matrice illuministica, la cui staticità nega la storicità del comportamento umano. Da questa impostazione deriva il famoso homo oeconomicus contro cui polemizzò aspramente Marx.

Al contrario, secondo il collettivismo epistemologico e secondo Aristotele, l’uomo è un animale politico (Marx corresse: è un animale sociale), nel senso che proprio per la sua stessa natura non può che nascere in un gruppo e ad esso appartenervi. Da questa considerazione discende la necessità di far fronte alle crescenti esigenze biologiche dell’essere umano dando vita alla cultura in senso generale. Infatti, noi siamo quelli che siamo proprio per il corpo che abbiamo, il quale è collocato nell’ambiente circostante i cui caratteri mutano nella misura in cui operiamo su di essi; al contempo quest’ultimo ci trasforma e la cultura diventa uno strumento indispensabile per adeguarci non sempre con successo a tali trasformazioni. Siamo, pertanto di fronte, ad una relazione prettamente dialettica, per sua natura antidualistica.

Esempi calzanti dello stretto legame tra scienza e società, di cui si diceva in precedenza, li troviamo nella teoria dell’evoluzione, che si espande in vari ambiti scientifici nella seconda metà dell’Ottocento, e che rappresenta la visione della borghesia proiettata verso il cambiamento continuo e contrapposta alla precedente teoria della staticità dell’universo e del mondo sociale, sorta nella collettività feudale dove i figli ereditano lo status dei padri. Questo legame non implica la totale invalidità di questa concezione.

Per comprendere come si è trasformata la relazione tra natura è società nel corso dei millenni della storia umana possiamo disporre di una serie di ricostruzioni storiche che, attraverso grafici, illustrano che la crescita generale dal 1300 al 1700 è stata costante ed è stata valutata lo 0,2% annuale; a partire da quel momento la crescita aumenta prima in Gran Bretagna con l’instaurazione del capitalismo, poi il comando e l’espansione passano nelle mani degli USA. Gli anni del picco della crescita vanno dal 1950 al 1970 (I trenta anni gloriosi, nei quali l’aspettativa di vita rispetto all’800 era migliorata del 100%)) , e dal 1891 al 2007 si attesta ad una crescita media del 2% l’anno; questa fase, in Italia il cosiddetto miracolo economico, è seguito da un lungo periodo di decrescita sempre nei paesi capitalistici avanzati, fino a trasformarsi in un tasso negativo. Secondo l’economista Robert Gordon, da cui traggo questi dati, negli USA questa tendenza negativa è destinata a persistere e ciò sarebbe dovuto alla decrescita demografica, all’invecchiamento della popolazione, all’indebitamento dei privati e dello Stato federale, all’inaccessibilità dell’educazione superiore (gli studenti hanno un trilione di dollari di debito). (813) Robert Gordon: The death of innovation, the end of growth – YouTube).

Credo che queste valutazioni possano essere estese a tutti i paesi capitalistici avanzati, e che sono anche peggiori perché quando Gordon parlava ancora non c’era stata né la pandemia né l’attuale guerra per procura.

Secondo David Harvey e altri autori negli anni ’70 il sistema capitalistico ha reagito a questa crisi complessiva, accompagnata dalla crisi dell’accumulazione, con la rottura del compromesso keynesiano capitale e lavoro stipulato nel secondo dopoguerra e con la restaurazione del potere di classe anche se in forma sempre più autoritaria. Questo rivolgimento ha comportato il peggioramento delle condizioni di lavoro e la crescita esponenziale delle disuguaglianze, elementi che – come ha predetto lo stesso FMI (Fondo miseria) – potrebbero fare e hanno fatto insorgere le popolazioni, le quali a livello mondiale stanno mettendo in questione l’antica relazione con l’Occidente, basata sullo scambio ineguale, secondo la definizione di Samir Amin.

Secondo l’approccio dialettico, richiamato in precedenza, ogni tipo di attività umana agisce sull’ambiente trasformandolo, basti pensare al processo millenario di domesticazione delle piante e degli animali;  questa stretta interrelazione ha spinto molti studiosi a coniare la parola Antropocene, successiva all’Olocene, che possiamo certamente utilizzare come categoria generale; tuttavia, la differenza tra la scarsa crescita dal 1300 al 1700 e quella realizzatasi con l’instaurazione del capitalismo in alcuni paesi ha reso necessario distinguere tra la fase, in cui lo sfruttamento della natura era di carattere artigianale, e quella in cui è praticato a livello industriale alla continua ricerca della valorizzazione del capitale investito. Da questa distinzione sorge la categoria di Capitalocene, che pertanto rappresenta solo un periodo, oggi assai critico, dell’Antropocene.   Varie sono le ragioni che ci hanno condotto a questa precisazione. In primis, la parola Antropocene prevede un opposizione tra uomo e natura, opposizione la cui origine socio-culturale è dimostrata dal fatto che essa non è condivisa dalla diverse società che si sono succedute nel corso della storia. In molte di esse, travolte dall’espansione occidentale, predominava quello che gli antropologi chiamano animismo, il quale prevede l’esistenza della materia animata e quindi non distinta dall’essere umano.

Inoltre, come scrive M. Antonio Pirrone, “addebitando ad un generico Ánthrōpos, in particolare all’Homo sapiens come “serial killer ecologico”[1], la responsabilità del collasso del sistema Terra e della sua biodiversità, la narrazione dell’Antropocene deresponsabilizza sia il modo di produzione capitalistico sia le sue classi dominanti (la storia è pur sempre fatta da individui e gruppi che non possono essere messi sullo stesso piano).  Infatti, se tutti siamo colpevoli nessuno è colpevole” (2022).

La crisi energetica del Capitalocene

Il libro Crisi o transizione energetica (Come il conflitto in Ucraina cambia la strategia europea per la sostenibilità) di Stefano Fantacone e Demostenes Floros, recentemente pubblicato da DIARKOS, si propone di esaminare i limiti della strategia adottata dall’Europa per garantire ai paesi del continente la sicurezza energetica, avendo come obiettivo quello di rompere i legami di dipendenza con la Federazione russa. Si tratta di un bel saggio estremamente interessante che sfata molti luoghi comuni, come per esempio che la crisi energetica sia scoppiata insieme all’attuale conflitto, quando invece essa ha cominciato ad affacciarsi all’orizzonte già nel marzo del 2021, ossia quando l’economia mondiale sembrava riprendersi dopo le fasi più acute della pandemia. Inoltre, mette in evidenza un tema poco trattato, ma noto agli specialisti, i quali sanno bene che nel periodo che va da oggi al 2050 la disponibilità dei combustibili fossili necessari a coprire il fabbisogno energetico mondiale è destinata a calare dall’80% al 33%. Se questa considerazione fosse corretta, Fantacone e Floros ipotizzano che la richiesta di queste risorse dovrebbe diminuire del 2% l’anno, comportando una graduale riduzione del loro prezzo. Ora i due autori mettono proprio in discussione questa semplicistica relazione economica, facendo presente che la guerra in Ucraina ha palesato che sulla disponibilità e sul prezzo dell’energia giocano un ruolo importantissimo anche fattori geopolitici, certamente sottovalutati dall’UE (pp. 22-23), ma non credo dagli Usa.

Prendendo spunto da queste complesse questioni, formulate in un libro che consiglio fortemente di leggere, vorrei riassumere brevemente il punto di vista di un fisico spagnolo, Antonio Turiel Martínez, autore de El otoño de la civilización (2022), a proposito della reale possibilità di realizzare un’effettiva transizione energetica. Questione su cui, del resto, mostrano scetticismo anche Fantacone e Floros, quando scrivono che, considerando il gas naturale come ponte verso quest’ultima, la stessa Commissione europea ha riconosciuto indirettamente “l’impossibilità di sostituire le fonti fossili con le rinnovabili nel breve-medio periodo” (p. 141).

Turiel è esperto in risorse energetiche e in oceanografia, lavora come ricercatore presso l’Istituto di Scienze del mare dell’Università di Barcellona, è stato consultato anche dal senato dello Stato spagnolo proprio sul tema della transizione energetica. In una recente intervista il nostro esperto ribadisce quanto si diceva prima: l’attuale conflitto ha solo esasperato la questione energetica, dato che da decenni ormai si prevede che la quantità di energia e di risorse materiali è destinata inevitabilmente a diminuire per ragioni di esaurimento geologico. Fenomeno che non si verificherà di colpo, ma che si sta attuando nel caso del petrolio, dell’uranio e forse del carbone; quanto al gas naturale mancano ancora alcuni anni. La fine della guerra potrà produrre solo un effimero miglioramento, ma il processo di impoverimento delle risorse continuerà ineluttabile. A suo avviso non si tratta di fronteggiare una situazione apocalittica (a meno che qualche pazzo lanci una bomba nucleare), ma di una situazione nuova cui soprattutto gli abitanti del mondo a capitalismo avanzato debbono adattarsi, modificando nella sostanza il modello socio-economico loro imposto. Si tratta di porre termine ad un mondo depredatore e distruttivo, che proprio per queste sue caratteristiche è meglio per noi tutti che cessi di esistere.

Per come interpreto il pensiero di Turiel, egli non propone la cosiddetta decrescita felice fondata sull’assunzione da parte dei consumatori della responsabilità di diminuire i loro consumi, per poi magari essere accusati del loro mancato impegno; si tratta piuttosto di un’aspra critica a un sistema basato sulla crescita infinita in un pianeta con risorse finite che deve essere inesorabilmente trasformato dal punto di vista sociale ed economico, se vogliamo salvaguardare la vita in tutte le sue forme sulla terra. A mio parere, ciò significa che la necessità della costruzione di una società socialista, in cui sia centrale la pianificazione e quindi l’uso razionale ed equo delle risorse, è oggi dimostrata anche dalle nostre conoscenze scientifiche che mostrano in maniera sempre più stringente l’insostenibilità di questo sistema, senza contare poi lo spreco delle risorse nelle guerre che costituiscono anche formidabili fonti di inquinamento.

Secondo il fisico spagnolo la dipendenza dal gas russo appare con la sostituzione del carbone nella produzione industriale e dell’elettricità, verificatasi tra la fine del secolo passato e l’inizio di questo. Questo trapasso aveva due motivazioni: la lotta contro il cambiamento climatico, dato che il gas emette meno CO2 per unità di energia prodotta, e per il suo minore costo, in quanto costituisce un sotto prodotto dell’estrazione di altri combustibili fossili.

Sulla complessa questione se la cosiddetta transizione ecologica costituisca la reale risoluzione alla crisi energetica, la risposta di Turiel è assai articolata. In primo luogo, sottolinea  che è più opportuno parlare di transizione energetica che ecologica, da lui definita REI (Modello di energia elettrica rinnovabile), e che essa presenta significativi limiti sempre occultati. Questi ultimi impediscono che questo modello possa essere utilizzato a grande scala e certamente non ha alcun senso pensare che sia in grado di sostituire del tutto l’impiego dei combustibili fossili ai livelli attuali. Entrando nel dettaglio, il fisico spagnolo continua: il potenziale massimo di produzione di energia rinnovabile è finito e, secondo stime recenti, potrebbe coprire solo il 40% dei consumi attuali, ammesso che non ci sia una loro crescita costantemente stimolata dal nostro sistema economico.

L’altro aspetto problematico del REI sta nel fatto che esso dipende da materiali che sono scarsi; infatti, non sono disponibili nel nostro pianeta quantità sufficienti di litio, cobalto, nichel, manganese, argento, neodimio o rame che possano consentire la sua sistematica implementazione. Per estrarli si incrementerebbe l’attività mineraria, la quale prolungherebbe il processo del loro esaurimento e allontanerebbe nel tempo il trapasso alla transizione. Oltre a ciò, il REI non è alimentato da energia rinnovabile: tutti i processi che lo coinvolgono (estrazione, trasporto, produzione dei mezzi per il trasporto, l’istallazione, il mantenimento e l’eventuale smantellamento) avvengono con il supporto dei combustili fossili, ad oggi non è noto se sarà possibile impiegare solo energia rinnovabile nel loro ciclo di vita. Quanto all’uso dell’elettricità, che costituisce un vettore energetico molto utile, attualmente rappresenta solo il 20% del consumo mondiale di energia, e il 25% nel caso dei paesi più avanzati, in decrescita a partire dal 2008.

Secondo Turiel le due tecnologie, che dovrebbero far aumentare il consumo dell’elettricità (l’auto elettrica e l’idrogeno verde) [2], non possono essere impiegate in maniera massiccia a causa della scarsità dei materiali necessari, della loro dipendenza dalle fonti fossili e della loro inefficacia, documentata dall’Agenzia internazionale dell’energia, dall’Agenzia europea dell’ambiente e dal Gruppo intergovernativo per il cambiamento climatico. Purtroppo, – continua lo scienziato – vendendole come ecologiche, si fa di queste due tecnologie un uso politico che si palesa nel propagandato progetto dell’interconnettore energetico tra Barcellona e Marsiglia (H2Med), che dovrebbe trasportare soprattutto l’idrogeno verde dalla Spagna alla Francia e da qui all’Europa, dato che esso non ha nessun fondamento tecnico. A suo parere si tratta di un progetto “basato sulla disinformazione e sulla confusione delle nostre élite politiche”, e che è straordinariamente complesso e costoso, per cui egli ritiene quasi impossibile che verrà realizzato.

Quanto all’auto elettrica, mi sembrano molti interessanti e chiarificatori i conti fatti da Turiel. Attualmente si estraggono in un anno circa 100.000 tonnellate di litio, indispensabile insieme ad altri minerali rari per costruire le batterie; con queste 100.000 tonnellate oggi, date le nostre conoscenze tecniche e utilizzandole solo per costruire auto (no cellulari, no computer etc.), possiamo costruire 8 milioni di veicoli l’anno che sono anche assai cari[3]; purtroppo, i veicoli impiegati al mondo sono circa un miliardo e 400 milioni, per cui si deduce che per sostituirli ci vorrebbero almeno 175 anni. Aspetto che farebbe dell’auto qualcosa di destinato solo ad alcuni privilegiati, inoltre, credo che nessuno di noi purtroppo può aspettare tanto.

Quanto poi ai già citati pannelli solari, aggiungo io, si tenga conto che la Cina è all’avanguardia in questo campo e probabilmente proibirà le sue esportazioni per rispondere alle limitazioni decise dagli Usa nella diffusione della tecnologia relativa ai microchip. Un altro bel problema per l’Occidente che tenta disperatamente di emanciparsi, ma cambiando semplicemente colui da cui inevitabilmente dipende.

Un altro problema del REI sta nel fatto che l’erogazione dell’energia con le fonti rinnovabili è instabile, per cui è assolutamente necessario dotarli di sistemi di stabilizzazione, cosa che attualmente si fa utilizzando gas naturale e quindi consumando in maggiore quantità questo combustibile. D’altra parte, se non si agisse in questo modo ci sarebbe il rischio di caduta della rete di alta tensione europea.

“Non esiste una soluzione semplice, né un modello di transizione rapido e conveniente”, incalza il nostro, il quale ribadisce che è indispensabile la riduzione razionale dei consumi e che sarebbe ora riconoscere l’impatto ambientale delle energie rinnovabili. Infatti, esse presentano lo stesso problema inerente a tutte le attività umane, ossia la produzione di residui contaminanti. Per esempio, l’estrazione dei minerali su menzionati, necessari per implementarle, che si è visto esser scarsi, richiede una grande quantità di energie fossili e inevitabilmente produce rifiuti tossici. Pertanto, è sempre opportuno valutare a fondo l’impatto ambientale e i benefici ricavabili. Inoltre, un’altra questione sta nel riciclaggio degli strumenti che producono l’energia rinnovabile, come le placche fotovoltaiche e le pale eoliche; processo estremamente costoso e che necessita la produzione di prodotti facilmente riutilizzabili.

Un altro problema individuato da Turiel consiste nella mancanza di equità nelle opportunità di far ricorso all’energia solare, dato che sono le famiglie dotate di alti redditi che vivono in abitazioni ampie ed unifamiliari a ricevere aiuti per istallare le placche fotovoltaiche necessarie alle loro esigenze. Mentre quelle famiglie che abitano in appartamenti situati in grandi edifici magari con una cattiva esposizione non possono usufruire di queste facilitazioni.

Quali sono le conclusioni che il fisico spagnolo ricava da questa dettagliata e documentata analisi? La risposta l’abbiamo in parte anticipata e può esser così espressa in maniera più compiuta: la crisi energetica costituisce un’opportunità che ci dovrebbe indurre ad abbandonare l’attuale modello, non cercando semplicemente nuove tecnologie che ci consentano di passare alle fonti rinnovabili. Si tratta di una trasformazione più radicale che si deve dispiegare sul piano socio-economico, praticando la riduzione dei consumi inutili e abbandonando il modello economico crescentista; scelta che ci permetterebbe di mantenere i nostri livelli di vita, magari migliorando anche quelli degli altri, consumando solo il 10% dell’energia che consumiamo. Ossia, in altre parole, mettere termine all’imperativo dell’accumulazione infinita.


[1] Questa definizione dell’Homo sapiens è di Yuval Noah Harari, citato in P. Missiroli, Teoria critica dell’antropocene. Vivere dopo la terra, vivere nella terra, op. cit., pp. 28-32.

[2]  L’idrogeno verde si produce utilizzando l’elettricità generata dalle fonti rinnovabili per trasformare l’acqua in idrogeno mediante elettrolisi. Bisogna notare che esso non costituisce una fonte di energia, ma un vettore energetico, ossia il luogo dove conservarla. I vari svantaggi che esso presenta sono dovuti al fatto che nel processo di estrazione, sia per elettrolisi che operando sul gas naturale, si producono grandi perdite di energia; oltre a ciò, essendo la molecola di idrogeno molto piccola è molto facile che si disperda, deve essere immagazzinato in depositi con pareti spesse e ciò nonostante si registrano perdite giornaliere del 2%. Per approfondire v. Turiel https://crashoil.blogspot.com/2020/10/asalto-al-tren-del-hidrogeno.html.

[3] Sembra che la Cina stia vendendo in Germania moltissime auto elettriche, addirittura di migliore qualità e meno care di quelle tedesche.