Il cambiamento del mondo in senso antimperialista attorno al cardine cinese e la necessità della costruzione del soggetto rivoluzionario in Italia

Conclusioni di Fosco Giannini al Convegno di Torino del 29 settembre 2023 dal titolo “Socialismo con caratteristiche cinesi e ruolo della Cina per un mondo multipolare”, organizzato da “Interstampa”, “Cumpanis” e il Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”

Di Fosco Giannini

Possiamo affrontare la “questione cinese” attraverso quattro punti fondamentali:

1) quanto la Cina abbia contribuito a determinare il nuovo e attuale quadro internazionale, segnato oggi da nuovi rapporti di forza tra il fronte imperialista e quello antimperialista, rapporti di forza oggi ben più sfavorevoli al fronte imperialista di quanto lo fossero vent’anni fa;

2) su quali basi materiali, politiche e teoriche, ha potuto costituirsi il titanico sviluppo economico, politico e sociale cinese;

3) quale contributo teorico fornisce lo sviluppo cinese al movimento comunista mondiale e al fronte antimperialista mondiale;

4) quale orizzonte apre al movimento comunista europeo e italiano.

Per parlare del primo punto, si deve partire dal 25 dicembre del 1991, alle ore 18.00, quando Gorbaciov si dimette da Presidente dell’Unione Sovietica, trasferendo i poteri (attraverso una scelta che si sarebbe ben presto rivelata tanto nefasta quanto drammatica per tanta parte dell’umanità, non solo per il popolo sovietico) a Boris El’cin. Alle ore 18.35 dello stesso giorno la gloriosa bandiera sovietica viene lentamente e per sempre ammainata dal Cremlino, sostituita dal tricolore russo. Il giorno dopo, 26 dicembre, il Soviet Supremo scioglie formalmente, dissolvendola, l’Unione Sovietica. Questi due giorni – 25 e 26 dicembre 1991 – sono giorni che sconvolgono il mondo e rappresentano uno spartiacque storico nettissimo: c’è una Storia precedente a questi due giorni e c’è una Storia ad essi successiva.

Dopo l’autodissoluzione dell’Unione Sovietica, Rossanda Rossanda dichiara che il crollo avrebbe potuto far ripartire un nuovo e “più avanzato” processo socialista; dichiarazione simile a quella di Trotzky, che tra il 1938 e il ’39, in Messico, aveva affermato che se l’URSS staliniana fosse stata travolta dalle contraddizioni interne e dalla pressione imperialista, ciò poteva anche essere un bene, poiché avrebbe fatto ripartire un nuovo processo rivoluzionario – affermazione che attirò le attenzioni sovietiche.

Con la scomparsa dell’URSS, invece e naturalmente, si liberano immediatamente gli spiriti animali dell’imperialismo e del capitalismo mondiale. Il nuovo e intero mondo viene da essi percepito come uno smisurato mercato da conquistare, con le buone o con le cattive, con la penetrazione economica o con la guerra. La stessa concezione liberale, idealistica e antidialettica de “la fine della storia”, già messa a fuoco da studiosi del campo conservatore, come Fukuyama, viene eletta a categoria assoluta e chiave di lettura della fase presente e del divenire.

Con la sciagurata autodissoluzione dell’URSS si afferma, da parte dell’euforico fronte imperialista e capitalista mondiale, che “la storia è conclusa” e “il socialismo si mostra ai popoli per quello che è: un’illusione irrealizzabile”; la scomparsa dell’Unione Sovietica avrebbe ratificato formalmente, anche sul piano filosofico (per il fronte imperialista e per il pensiero borghese) che “il capitalismo è natura, eterno e immodificabile”.

La stessa Unione europea accelera il proprio processo di costituzione (in senso iperliberista) a partire dal fatto che il grande capitale transnazionale europeo vuol partecipare alla lotta interimperialista per la conquista dei nuovi mercati mondiali lasciati indifesi e permeabili alle mire capitaliste/imperialiste dalla scomparsa dell’URSS. Ed un centro di potere sovranazionale piegato e funzionale ai progetti del grande capitale transnazionale europeo come quello dell’UE (attacco ai salari, ai diritti e allo stato sociale su scala continentale europea al fine di rafforzare il profitto capitalista dando più forza al capitale europeo per concorrere alla conquista dei mercati mondiali) è ciò che ci vuole. Non sarà casuale, detto ciò, che l’URSS si autodissolva il 26 dicembre del 1991 e la firma sul Trattato di Maastricht venga rapidamente apposta poche settimane dopo, il 7 febbraio del 1992.

In questa stessa fase temporale nella Repubblica Popolare Cinese è in atto un duro scontro tra la corrente “riformista” del Partito Comunista Cinese, guidata da Hu Yaobang e la maggioranza del Partito, guidato da Deng Xiaoping. Hu Yaobang ha messo in moto un movimento («doppio cento») – che si richiama (inopinatamente) a quello dei «cento fiori», del 1956 – che tende a mobilitare di nuovo quel movimento, che chiede una maggiore separazione tra Partito e Stato ma che, nella stessa dinamica politica, sociale e ideologica messa in campo nella battaglia contro il Partito, sfocia nella sfera politico-culturale liberista, nella negazione dei prodromi del progetto “denghista” dell’“economia socialista di mercato”, finendo per inclinare in senso antisocialista e filoamericano. Una doppia inclinazione che porta il movimento “doppio cento” a cercare apertamente, nel 1989, il sostegno di Gorbaciov, già perdutosi, in questa fase, nel caos distruttivo dell’Unione Sovietica e dell’intero campo socialista e dunque osannato dai “doppiocentisti” durante la sua visita in Cina. Il movimento “doppiocentista” è sorretto soprattutto da una parte del movimento studentesco di Pechino, sfociato e culminato – tra il 16 e il 17 maggio 1989, in piazza Tienanmen – nella richiesta di una democrazia borghese di stampo nordamericano, che se conquistata avrebbe decretato la morte del “socialismo con caratteristiche cinesi” ancora in evoluzione. Come avrebbe fatto mancare (in relazione a ciò che lo sviluppo pieno del progetto “denghista” avrebbe, nei decenni successivi, positivamente rappresentato sia per il popolo cinese che per i popoli in via di liberazione nel mondo) il pilastro fondamentale per la ricostruzione di quel fronte mondiale antimperialista che invece, in poco più di un quindicennio, si sarebbe ripresentato sulle scene internazionali.

Lo scontro tra il movimento di Hu Yaobang e la sua degenerazione liberale e la linea di Deng Xiaoping è fortunatamente vinto da quest’ultimo e dalla maggioranza del Partito Comunista Cinese.

Con la sconfitta del movimento “doppio cento” e la sconfitta di Piazza Tienanmen, la svolta politica ed economica cinese diretta ad una “economia socialista di mercato” s’invola. Prima con Deng, poi con Jang Zemin, Hu Jintao e Xi Jinping alla guida del Partito Comunista Cinese, lo sviluppo economico porta la Cina, da un’arretratezza delle forze produttive ancora segnata, alla fine dell’era maoista, persino da alcuni caratteri feudali, specie nel lavoro dei campi, nella produzione agricola, ma non solo, a conseguire, con conclamazione planetaria, la posizione di seconda più grande economia del mondo, contribuendo per più del 30 per cento alla crescita economica globale.

Gli 800 milioni di uomini e donne cinesi che nella nuova fase di sviluppo economico sono tratti fuori dalla miseria e dalla fame, dicono solo una parte della grande crescita cinese, che cambia positivamente il mondo mutandone i rapporti di forza tra poli e Stati imperialisti e poli e Stati dal carattere socialista, antimperialista e in via di liberazione anticolonialista. Uno sviluppo, quello cinese, che, incredibilmente, prende corpo in un contesto terribilmente ostile per ogni esperienza e progetto socialista – un contesto segnato dalla controrivoluzione “gorbacioviana” e dalla conseguente scomparsa dell’URSS e del campo socialista; dalla scomparsa del Comecon (l’area di scambio mercantile socialista); dalla nuova aggressività economica e militare imperialista e dal fronte interno guidato da Hu Yaobang e da piazza Tienanmen, un fronte ben visto dagli USA e dall’occidente capitalistico e obiettivamente diretto a destabilizzare il socialismo e il Partito Comunista Cinese – e che la dice lunga sulla lungimiranza, sul senso rivoluzionario, sulla determinazione e sullo sguardo lungo dei gruppi dirigenti del Partito Comunista Cinese.

A posteriori, aiutati dallo stato presente delle cose, è facile dirlo: ma se il Partito Comunista Cinese non avesse scelto e intrapreso la via del pieno sviluppo delle forze produttive (sviluppo cinese che va inteso non come un’apologia del produttivismo e del “sansimonismo” borghese, ma come potente emersione delle capacità produttive avanzate dirette a liberare il popolo cinese dalla povertà, dalla fame, dalla sudditanza al capitale internazionale e dalla schiavitù del lavoro bruto) attraverso il coraggioso lancio di quel progetto autonomo, indipendente dai poli imperialisti e capitalisti mondiali e follemente grande chiamato “economia socialista di mercato” e avesse invece mutuato le scelte “gorbacioviane”, la Cina (invece di dotarsi di una propria, possente, autonomia) sarebbe stata, con ogni probabilità, preda, nella fase mondiale iperliberista successiva alla caduta dell’URSS, delle forze imperialiste; sarebbe stata penetrata da queste forze e avrebbe corso il forte rischio di una propria polverizzazione interna, di una propria implosione, a partire dall’immediata autonomia del Tibet, possibile primo mattone a cedere di un’intera struttura.

Oggi possiamo più agevolmente affermare, alla luce dei fatti compiuti, che le vittorie “denghiste” su Piazza Tienanmen e sul movimento di Hu Yaobang (con il conseguente pieno avvio di quello che sarebbe stato il più grande sviluppo economico e sociale della storia dell’umanità, lo sviluppo cinese attraverso “l’economia socialista di mercato”) si sarebbero offerte quali decisive basi materiali per giungere – da lì a pochi anni e in una fase storica così difficile per il movimento comunista, rivoluzionario e operaio mondiale da consentire alle forze imperialiste di credere davvero nella “fine della storia” – alla costituzione di un fronte antimperialista, e comunque libero dall’egemonia imperialista, in grado di cambiare i rapporti di forza mondiali a sfavore degli USA e delle altre potenze imperialiste.

Parliamo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) che a soli 18 anni (un lampo, nella storia!) dalla caduta dell’URSS si uniscono – tra il 2009 e il 2010 – al fine di sviluppare una politica non subordinata alle forze imperialiste e invece solidale con i popoli e gli Stati in via di liberazione. Le forze dei BRICS che oggi giungono alla consistenza di una grande potenza mondiale, dopo il Brasilia Consensus del giugno 2023 – attraverso il quale 11 Paesi dell’America Latina chiedono l’entrata negli stessi BRICS – ed il XV Vertice BRICS di Johannesburg tenutosi dal 22 al 24 agosto 2023, durante il quale tanti altri nuovi Paesi, dell’Africa, dell’America Latina, dell’Asia iniziano a aderire a questo nuovo fronte planetario antimperialista.

È del tutto evidente come l’immenso sviluppo economico (e dunque politico e geopolitico) cinese sia il massimo collante di questa unione, di questo nuovo fronte tendente a “spuntare le unghie all’imperialismo”.

Il tempo che ci separa dal 26 dicembre 1991 (autoscioglimento dell’URSS) ad oggi possiamo dividerlo – seppur rozzamente, ma per far “ordine” nel quadro internazionale – in tre grandi fasi:

– La prima è quella segnata dall’euforia imperialista successiva alla caduta dell’URSS e del campo socialista.

– La seconda è quella delle grandi lotte a carattere antimperialista e socialista che si alzano in tutta la loro evidenza (raggelando il fronte che aveva “deciso” la “fine della storia”) in America Latina, che si allargano in Africa, che prendono forme antimperialiste diverse nella Russia di Putin, in India, che si consolidano in Vietnam e in altre aree dell’Asia. Tutte forme socialiste e antimperialiste che trovano nella Repubblica Popolare Cinese e nel suo sviluppo la loro prima e massima sponda, il primo alleato, il centro di gravità.

– La terza fase che possiamo mettere a fuoco, in questo lasso di tempo che ci separa dal fallimento “gorbacioviano” e dalle sue catastrofiche conseguenze, è quella che oggi viviamo: la fase caratterizzata dalla risposta violenta, militare dell’imperialismo a guida USA e NATO all’“insurrezione” antimperialista internazionale, alla costituzione del fronte dei BRICS. Non è un caso, di fronte a ciò, che sia al XIX che al XX Congresso del PC Cinese si siano decisi significativi progetti di rafforzamento e rimodernamento dell’esercito, che nel 2050 dovrebbe diventare «di classe mondiale».

Di questa terza fase segnata dalla violenza imperialista successiva alla “scoperta” che la fine della storia non c’era affatto stata, sono emblematici almeno due fatti di grande impatto internazionale: il colpo di stato a Kiev del 2014 guidato dagli USA, dall’UE e dalla NATO e condotto sul campo dal Battaglione nazifascista Azov e dagli altri gruppi paramilitari nazifascisti ucraini, “golpe” occidentale volto a far fuori il presidente ucraino legittimamente eletto Victor Yanukovic (nettamente contrario all’entrata dell’Ucraina nell’UE e nella NATO), ed il summit del G7 in Cornovaglia del 2023, durante il quale il neoeletto presidente USA Biden sottomette brutalmente a Washington i Paesi presenti (UE, Canada, Gran Bretagna, Giappone), spingendoli a firmare un terrificante “Documento finale di Carbis Bay” nel quale si progetta la costruzione di un vasto fronte militare, che va dagli USA all’UE passando per la Gran Bretagna, il Giappone, la Corea del Sud e l’Australia, volto alla guerra, tattica e strategica, contro la Russia e la Cina. Un Documento, questo di Carbis Bay, che nella malaugurata possibilità di una Terza Guerra Mondiale ne rappresenterebbe la sanguinosa base progettuale e materiale.

È del tutto evidente che, anche in questo caso, anche di fronte allo scatenamento militare degli USA e della NATO su di un vastissimo fronte internazionale (che va dal Medio Oriente all’Ucraina, passando per i Mari del Sud della Cina e per la Corea del Nord e per tutti gli odierni progetti USA di «golpe» in America Latina, dal Brasile all’Honduras, passando per l’Argentina, la Bolivia e il Venezuela) è la Cina ad offrirsi come principale diga oggettivamente antimperialista.

Veniamo dunque al secondo e terzo punto: su quali basi materiali, politiche e teoriche ha potuto costituirsi il titanico sviluppo economico, politico e sociale cinese e quali e quale contributo teorico fornisce lo sviluppo cinese al movimento comunista mondiale e al fronte antimperialista mondiale).

La “legge” di Marx («il socialismo è lo sviluppo delle forze produttive») trova nell’attuale potenza internazionale cinese e del Partito Comunista Cinese la sua probante conferma. Ed è, dunque, tale rivoluzionario sviluppo delle forze produttive che dobbiamo indagare, mettere a fuoco. Anche per «fare legna» sul versante politico-teorico comunista generale.

Nell’affrontare “la questione cinese” e, in particolare, la relazione tra la NEP di Lenin e la “NEP” cinese, credo sia utile affidarsi ad una disciplina teorica, la massima disciplina teorica, quella secondo la quale è dalla base materiale dello sviluppo delle forze produttive e dallo sviluppo sociale generale che trovano possibilità di sviluppo le stesse “idee” e, più precisamente, le innovazioni – antidogmatiche, dunque, per la loro stessa natura di “forme” innovative – sui terreni dell’economia, della politica, della teoria, del pensiero e della prassi della trasformazione sociale, della transizione al socialismo.

Ed è indubbio che il titanico sviluppo economico e sociale intrapreso e conquistato dalla Repubblica Popolare Cinese e dal Partito Comunista Cinese, dalla fase delle «Quattro Modernizzazioni» del compagno Deng Xiaoping e dalla via al «socialismo con caratteristiche cinesi», si sia offerto quale immensa e solida base materiale per lo stesso sviluppo di un nuovo pensiero rivoluzionario generale.

È questo – la relazione tra sviluppo della materialità delle cose e lo sviluppo teorico-filosofico in senso rivoluzionario – uno degli aspetti, dei “prodotti”, della storica crescita materiale cinese, un aspetto, forse, non considerato ancora pienamente, nella sua importanza, all’interno del movimento comunista e rivoluzionario mondiale. Si tratta invece di un aspetto che occorrerebbe assumere pienamente, come formidabile arricchimento del bagaglio teorico e pratico del processo rivoluzionario, specie in questa fase storica segnata – oltre che da un avanzamento del fronte antimperialista trainato proprio dallo sviluppo cinese all’interno dei BRICS – anche da processi involutivi e di indebolimento del pensiero e della prassi comunista sul piano internazionale. Specie in Europa, ove con ogni evidenza l’«eurocomunismo» ha seminato i suoi danni.

La modernizzazione, lo sviluppo delle forze produttive

Apriamo questa parte sulla “modernizazzione della Cina” attraverso una citazione del grande filosofo marxista italiano Domenico Losurdo, tratta da un intervento che lo stesso Losurdo svolse al Forum europeo del 2016 dal titolo “La via cinese e il contesto internazionale”. L’intervento di Losurdo aveva come titolo “Washington consensus o Beijing consensus?”. In un passaggio del suo intervento il grande filosofo italiano così si esprimeva: “La guerra di posizione condotta dalla classe dirigente del Partito Comunista Cinese ha visto negli ultimi 40 anni di Riforme e Apertura – nel contesto del più grande sviluppo economico della storia dell’umanità – 800 milioni di cinesi affrancarsi dalla povertà, un fenomeno che è stato definito dalla Banca Mondiale come uno dei più grandi racconti della storia dell’umanità. Di questi 800 milioni, 60 sono usciti dalla condizione di povertà soltanto negli ultimi 5 anni. Si tratta evidentemente di una lotta di classe che procede in direzione opposta rispetto a quella condotta in Occidente, dove assistiamo ad un processo inverso nel quale si determina un allargamento sempre maggiore della forbice sociale tra ricchi e poveri”.

“Ma questo straordinario risultato – continuava Losurdo – non induce la classe dirigente cinese a tirare i remi in barca e ad abbandonare la lotta fin qui condotta, né tantomeno a nascondere le contraddizioni irrisolte, e vorrei rammentare a proposito un’affermazione di Xi Jinping: “Dobbiamo essere molto chiari: vi sono ancora molte inadeguatezze nel nostro lavoro, numerose difficoltà da affrontare. Esistono problemi acuti causati da uno sviluppo sbilanciato e inadeguato che ancora attendono soluzioni”.

Ecco: in questi stessi ultimi passaggi che Losurdo aveva evocato (l’immenso sviluppo delle forze produttive cinesi dopo la Rivoluzione Culturale; gli 800 milioni di cinesi tratti fuori dalla povertà e da una condizione miserevole; il nuovo e centrale ruolo della Cina nel quadro internazionale; la consapevolezza, da parte del PCC, che le questioni non sono certo ancora tutte risolte e che dunque è la stessa fase oggettivamente contraddittoria e in divenire ad assegnare al Partito il ruolo guida rivoluzionario) è possibile rintracciare il senso ultimo di questo Convegno a Torino e delle riflessioni dei relatori che mi hanno preceduto.

Un successo, quello dello sviluppo economico cinese, già così storico e planetario – come accadde all’Unione Sovietica vincente, che sconfisse il nazifascismo e impose un modello sociale che in Occidente si tradusse nel welfare e nel ruolo degli Stati nelle economie capitaliste occidentali – che sembrano, come scrive Losurdo, già remoti gli anni nei quali il Washington consensus (il liberismo totale occidentale) si offriva come unico modello, un modello oggi fortemente insidiato dal Beijing consensus, la proposta cinese segnata dal forte ruolo dello Stato nello sviluppo economico e nella costruzione sociale razionale. Un moto mondiale che, da solo, batte in breccia i tentativi volgari volti a far passare “il socialismo con caratteristiche cinesi” come il ritorno della Cina al capitalismo. Occorre ricordare a partire da ciò come lo stesso Wall Street Journal abbia recentemente dovuto, con disappunto, riconoscere il ruolo “onnipresente” del Partito Comunista Cinese, il ruolo dell’economia statale in tutti settori strategici, dall’energia alle infrastrutture, dalle telecomunicazioni al sistema bancario e come, nei comunicati ufficiali cinesi, non si parli esplicitamente di “settore privato”, ma solamente di “economia non pubblica”, quasi a sottolinearne la subordinazione.

Considerazioni, si ricorda ancora, ribadite dallo stesso Xi Jinping anche al XIX Congresso del PCC (ottobre 2017): “Dobbiamo continuare a valorizzare la superiorità del nostro sistema socialista e a far valere il ruolo decisivo del Partito e del governo”.

È anche da qui, dunque, dal contributo che lo sviluppo delle forze produttive cinesi, dal contributo che la «NEP» cinese ha fornito allo sviluppo dell’attuale pensiero rivoluzionario, che si può iniziare a tratteggiare un’analisi comparata tra NEP leninista, rimozione della stessa NEP leninista e «NEP» cinese, anticipando – in modo sintetico – una valutazione: come la conquista dell’obiettivo dello sviluppo delle forze produttive ha potuto darsi – in Cina – come base materiale dello sviluppo del pensiero rivoluzionario, così la troppo lunga stagnazione sovietica si è data – infine – come base materiale della cristallizzazione e dell’involuzione del pensiero e della prassi del socialismo in Unione Sovietica.

Quali sono le «categorie» centrali che, come proiezioni della propria, nuova, poderosa, forza materiale, la Cina socialista ha potuto mettere in campo?

Sinteticamente:

– il pieno ripristino dell’azione soggettiva e antipositivista nel processo storico (Lenin, Gramsci) e ciò in rapporto al rovesciamento del dogma secondo il quale la contrapposizione sarebbe secca: o socialismo o mercato;

– il superamento, nella prassi, dell’artificiosa dicotomia relativa alla “neutralità” o “non neutralità” delle forze produttive, dicotomia risolta, nell’esperienza del “socialismo con caratteristiche cinesi”, dal controllo del Partito Comunista sulle stesse forze produttive (esigenza già richiesta, dal Lenin della NEP, nella proposta del “controllo dalle alture strategiche”), esse stesse ridotte a pure “funzioni” del progetto del “socialismo di mercato” a guida comunista;

– conseguentemente a ciò, una concezione del mercato come spazio economico e politico anch’esso funzionale al progetto di necessaria accumulazione originaria, imprescindibile per la transizione al socialismo, un mercato – dunque – pienamente assunto, nella prassi e nel pensiero, come forma storica non perenne ma dialettica, cavallo di Troia materiale per il socialismo.

E altre categorie: come l’internazionalismo oggettivo (e soggettivo) che scaturisce dalla stessa potenza economica, in grado di mettere in campo relazioni e grandi e positive sfere d’influenza sul piano mondiale, capaci di mutare i rapporti di forza internazionali in senso antimperialista; e, ancora, la vera e propria cancellazione della “cultura” piccolo borghese (ma tanto funzionale alla critica imperialista alla Cina socialista) tendente a mitizzare le fasi preindustriali e contadine, demonizzando lo sviluppo economico.

Sia Flaubert che Marx ed Engels avevano già fustigato tale untuosa tendenza piccolo-borghese: Flaubert nel romanzo “Bouvard e Pècuchet”, dove è descritto il «desiderio» della piccola borghesia di «tornare alla terra in un mondo senza più l’orrore dell’industria», un desiderio che dura il tempo di conoscere la fatica bestiale dei campi, per poi celermente scomparire; Marx ed Engels nel “Manifesto del Partito Comunista”, quando scrivono dell’«idiozia di una vita rurale racchiusa nella miseria e nell’ignoranza bruta». Il punto è che per l’ideologia piccolo-borghese, anche “di sinistra”, nulla è contato l’aver tratto fuori dalla miseria, come ha fatto il socialismo con caratteristiche cinesi, quasi un miliardo di persone dall’orrore della fame e della morte per inedia.

Come nulla è contato, per questa stessa ideologia, anche “di sinistra”, il fatto che lo sviluppo cinese abbia innestato un nuovo e potente motore nel camion dell’antimperialismo mondiale.

Marx ed Engels, per ragioni storiche, oggettive, non sono mai stati di fronte ai problemi pratici della costruzione del socialismo. E mai hanno potuto sviluppare un’analisi scientifica rispetto al rapporto tra economia di mercato e socialismo. È stato Lenin – a dimostrazione della propria inclinazione antidogmatica, la stessa che lo portò alla concezione dell’“anello debole della catena” – il primo comunista ad interessarsi alla questione. Naturalmente, il Lenin della presa del potere, dell’Ottobre, non metteva in discussione la concezione dell’incompatibilità tra socialismo e mercato. Una posizione rafforzatasi nella fase terribile della guerra contro gli undici eserciti stranieri e della controrivoluzione in atto.

In quella fase la concezione di Lenin era lineare: lo Stato doveva mettere sotto controllo totale sia la produzione industriale che le eccedenze dei raccolti del grano. In questo quadro “l’economia di mercato” e “il libero commercio” erano considerati, anche sul piano ideologico, concezioni contro-rivoluzionarie. Questa politica, come è noto, prenderà il nome di “comunismo di guerra” e terminerà all’inizio del 1921.

Sconfitta la controrivoluzione, però, l’enorme massa dei contadini non accettò più i sacrifici imposti dal “comunismo di guerra” e Lenin si fece carico, più di ogni altro dirigente, della contraddizione sociale in atto, che lo portò a ragionare sull’esigenza dell’alleanza contadini-operai. Un’alleanza che Lenin, all’inizio, tentò di saldare anche attraverso un’innovazione politico-teorica: lo scambio di prodotti (baratto di merci) tra contadini e operai, tra grano e beni industriali. Non sarebbe stata la soluzione, ma un’epifania: l’indicazione di marcia, da parte di Lenin, era già potente, antidogmatica, una premessa della stessa NEP.

NEP che partì nell’ottobre del 1921, quando Lenin si convinse della necessità dell’economia di mercato, linea che produsse non poche contraddizioni all’interno del Partito Comunista Russo, contraddizioni e resistenze che Lenin vinse ma sarebbero poi tornate, con Stalin, sotto forma di totale contrarietà, nella fase della fine della NEP.

Quale corredo politico-teorico lascia la breve esperienza della NEP leninista?

Lascia, innanzitutto, una riflessione, da parte di Lenin, profonda e proficua, un vero e proprio apparato teorico (accantonato) a sostegno del “socialismo attraverso un’economia di mercato”.

Lenin mette a fuoco la concezione dell’«uklad», una struttura socialista, una produzione economica socialista in grado di svilupparsi proprio in virtù della competizione con le strutture neocapitalistiche interne al socialismo. Una visione, questa di Lenin, addirittura preveggente, rispetto alla futura stagnazione sovietica brezneviana e in accordo con lo stesso, odierno, tipo di sviluppo e proficua competizione Stato-mercato del “socialismo con caratteristiche cinesi”.

Oltre ciò, Lenin affronta il problema dell’entrata dell’economia di mercato (e persino del capitale straniero) nel socialismo in termini nuovi, sottolineando gli aspetti positivi, per ciò che riguardava e riguarda il necessario sviluppo generale delle forze produttive, di queste “entrate” capitalistiche.

Un altro aspetto anticipato da Lenin, nell’analisi del “socialismo di mercato”, sta nel fatto che, in presenza di spinte neocapitalistiche nella struttura socialista, elementi “mafiosi”, di corruzione, di involuzione burocratica possono inevitabilmente presentarsi. Ed è a partire da ciò che Lenin stesso proponeva una forte spinta politica e ideale ai fini della costruzione di un’autodisciplina nelle istituzioni pubbliche, oltre alla proposta di un controllo esercitato contro le degenerazioni da parte del potere socialista. Ciò che dobbiamo rimarcare, da questo punto di vista, è il fatto che le degenerazioni di cui parlava Lenin si siano poi presentate, anche in forma massiccia, nell’esperienza sovietica priva di mercato, come a dire che non basta la cancellazione del mercato a impedire il formarsi della corruzione, questione che – ci sembra – sia presente al Partito Comunista Cinese, che sta intervenendo giustamente e con polso fermo contro i fenomeni di corruzione in seno al “socialismo con caratteristiche cinesi”. Non è senza significato, da questo punto di vista, il fatto che l’88 per cento dei delegati al XIX Congresso del PC Cinese sia entrato nel Partito dopo le riforme di Deng.

La stessa questione – ai fini rivoluzionari e di sviluppo del socialismo – dell’“apprendimento” (categoria sviscerata nella ricerca leninista di allora) da parte del socialismo dei meccanismi produttivi capitalistici era considerata da Lenin centrale; come centrale, architrave del processo, era considerata da Lenin la concezione delle “alture strategiche”, terminologia mutuata dalla guerra e utilizzata per rimarcare, da Lenin, l’esigenza del controllo socialista su tutto il piano NEP, il controllo del potere rivoluzionario sullo stesso “socialismo di mercato”. Cosa è stata, in fondo, la giusta reazione del Partito Comunista Cinese in Piazza Tienanmen, quando l’imperialismo USA soffiava sul fuoco, se non l’applicazione rivoluzionaria della difesa del socialismo dalle “alture strategiche”? Possiamo, a proposito, fare ricorso alle parole che Gillo Pontecorvo fa pronunciare ad Alì Ben Mihdi ne “La Battaglia di Algeri”: «Cominciare una rivoluzione è difficile, anche più difficile continuarla, e difficilissimo vincerla. Ma è solo dopo, quando avremo vinto, che inizieranno le vere difficoltà!».

E che cos’è – se non una mutuazione delle categorie leniniste – la parola d’ordine uscita dal XIX Congresso del PC Cinese relativa al “maggior controllo”, da estendere per la difesa del socialismo, da parte del Partito»?

La NEP leninista, seppur tra difficoltà e contraddizioni, favorì un grande sviluppo economico, riconosciuto come tale anche da Lenin nei suoi scritti precedenti la morte. Uno sviluppo che non aveva inficiato il progetto ed il potere socialista, ma l’aveva persino rafforzato nel senso comune del popolo sovietico.

Lenin muore nel gennaio del 1924 e la NEP inizia a spegnersi da quella data. Si protrae, di fatto, sino al 1930, ma, con la “collettivizzazione forzata delle campagne”, condotta da Stalin, essa termina di esistere.

Colpa di Stalin? Noi comunisti ci rifiutiamo di rispondere in questi termini alla domanda. La demonizzazione di Stalin è già così potentemente portata avanti dall’occidente capitalistico che non ha bisogno dell’aiuto dei comunisti. Noi possiamo e dobbiamo criticare Stalin, come peraltro il Partito Comunista Cinese critica il Mao della “Rivoluzione Culturale”, ma, come il PCC che rivaluta l’azione rivoluzionaria storica di Mao, noi comunisti italiani sappiamo rivalutare l’azione rivoluzionaria storica di Stalin.

Altra cosa è un’analisi profonda e seria relativa al superamento della NEP da parte di Stalin, analisi che ancora non è sufficientemente sviluppata e che deve invece svilupparsi, anche perché riguarda una fase decisiva per arricchire lo stesso bagaglio teorico del movimento comunista mondiale.

Certo è che Stalin va dritto verso l’abolizione della legge del valore, non delineando una fase di passaggio e di transizione al socialismo; risponde con più “automatismi” ideologici, nella lotta contro il mercato, rispetto alla creatività teorica e politica di Lenin e, soprattutto, Stalin inizia ad operare in un contesto segnato dal riarmo e dall’aggressività bellica imperialista, delle spinte alle quali si aggiungono, all’interno dell’URSS, nuove tensioni e contraddizioni, date anche dallo sviluppo spurio e non ancora reso armonico al socialismo della NEP. Spinte belliche imperialiste e contraddizioni interne che inducono Stalin a decidere che l’URSS, in quella fase, non può reggere le politiche e le inevitabili contraddizioni della NEP e che, dunque, la Nuova Politica Economica va disinnescata.

D’altra parte, è un insegnamento della stessa, attuale, esperienza cinese che il “socialismo di mercato”, e comunque un processo di transizione al socialismo, ha innanzitutto bisogno di un contesto internazionale di pace. E tale assunto è facilmente constatabile proprio in questa fase: contro la nuova, gigantesca “One Belt One Road”, la Nuova Via della Seta cinese, dal successo della quale può oggettivamente partire un grande aiuto sia alla pace mondiale che alle fortune del socialismo, si erge la contrarietà imperialista, che si materializza, intanto, attraverso il minaccioso rafforzamento della flotta militare USA e NATO nei Mari del Sud della Cina e nei porti delle Filippine; attraverso la rimilitarizzazione, sostenuta dagli USA, del Giappone; attraverso la costruzione di uno scudo stellare nella Corea del Sud contro la Corea del Nord; attraverso il moltiplicarsi delle esercitazioni militari USA-Corea del Sud; attraverso la demonizzazione della Corea del Nord e attraverso la collocazione di basi militari USA e NATO sia in Ucraina che in Afghanistan, motivo primario degli interventi militari USA e NATO in questi due Paesi.

Per riprendere il filo del discorso sull’economia sovietica, discorso funzionale allo studio del “socialismo con caratteristiche cinesi”: cosa sostituisce, Stalin – ai fini della produttività di massa, dello sviluppo delle forze produttive e ai fini di una nuova accumulazione – alla NEP?

Indubbiamente Stalin sostituisce alla Nuova Economia Politica la forza intrinseca dello stesso socialismo sovietico che va (dentro un mondo ostile e di fronte alla concezione quasi planetaria di un capitalismo concepito come “natura” e dunque insuperabile) controstoricamente costruendosi; costruzione concreta alla quale, tuttavia, aggiunge elementi fortemente idealisti che hanno la forza di protrarsi nel tempo (il lavoro d’assalto, l’emulazione, lo stakanovismo, l’onda lunga e idealista della Rivoluzione d’Ottobre, che tutto unisce e spinge) ma che – proprio perché elementi non materialisti – possono durare sino alla vittoria sul nazifascismo e non evitare la grigia caduta ed evaporazione nella lunga stagnazione brezneviana.

Nel senso, prosaico ma concreto, che non si poteva chiedere l’emulazione di massa e lo stakanovismo alle generazioni venute dopo la guerra. Persino Ernesto Che Guevara (un iperidealista), per ricordare la storia, da Ministro dell’Economia, dopo la Rivoluzione Cubana, punta, dopo deludenti esperienze sul campo della mobilitazione sentimentale, a introdurre, per aumentare la produttività, il cottimo. Introduzione vissuta da Guevara come una sconfitta.

Dopo la NEP, l’Unione Sovietica non conosce più altro sistema che quello dello “Stato totale”, dove, mano a mano, la spinta alla produttività e allo sviluppo delle forze produttive va anchilosandosi. Nel sistema viene a presentarsi anche una contraddizione di natura degenerativa: una sorta di scambio tra mancanza del mercato e delle merci, mancanza di democrazia sovietica e allentamento, sino quasi alla cancellazione, del controllo nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro e di produzione. Uno sviluppo senza più la NEP di Lenin né l’idealismo ed il controllo di Stalin.

Il processo ideologico di “svalorizzazione” del lavoro e della produttività diviene una sorta di involucro che tutto segna di sé e, in questa palude, la riproduzione della produzione e dei mezzi di produzione – che va avanti, dalla fine degli anni ’60 in poi, come una coazione a ripetere, senza dinamizzazioni o svolte significative – diviene un processo in via d’esaurimento.

Nella mancanza – spesso disperata, per i cittadini sovietici – delle “merci leggere” e di consumo di massa, vi è molto dell’“ideologia” della stagnazione: la scelta di perpetuare un’economia di merci pesanti, a discapito delle condizioni di vita dei cittadini e del consenso di massa e a discapito dell’apertura di un più vasto mercato interno e della possibilità, da parte dell’URSS, di puntare ai mercati mondiali, la si spiega anche con la supposta, “diversa”, coscienza del popolo sovietico, non incline, per questa ideologia, alla necessità delle merci. Un errore madornale nell’interpretazione di un popolo, dei lavoratori: non vi era bisogno, per liberarsi dalle fatiche famigliari, di una lavatrice? Non vi era bisogno di un frigorifero, di un ferro da stiro facilmente reperibili sul mercato? Non vi era bisogno, per un popolo e per una classe operaia, contadina, che tanto avevano dato alla Rivoluzione, alla difesa della Rivoluzione e alla sanguinosa lotta contro il nazifascismo, di un’economia volta alla produzione di massa di merci “leggere”, di consumo popolare?

Non vi furono, nell’URSS, grandi innovazioni sul campo economico. Uniche eccezioni di rilievo, i tentativi delle due riforme condotte da Aleksej Kosygin, che prima nel 1965 e poi nel 1973 tentò di dinamizzare l’economia sovietica a partire, soprattutto, dal superamento della burocratizzazione ministeriale dell’economia, attraverso la costituzione di associazioni produttive a livello repubblicano e locale. Paradossalmente, una via che aumentava i poteri del Comitato di Pianificazione di Stato (il Gosplan) sottraendoli, appunto, ai gangli burocratici distanti dalla produzione. Le due riforme Kosygin, benché lontane dallo spirito della NEP e solo timidamente evocanti il ritorno a minimi meccanismi di mercato, furono insabbiate, pur non fallendo (si ricorda lo sviluppo produttivo imperioso delle automobili “Gorkii”, a Leningrado). Il sistema anchilosato aveva “digerito” Kosygin.

Certo è che le cause della caduta dell’URSS non vanno ricercate solo nella stagnazione e nel mancato e pieno sviluppo delle forze produttive. La lunga sfida militare imperialista volta a dissanguare l’economia sovietica sull’altare del riarmo; il possente e continuo aiuto internazionalista, di tipo materiale e diretto in ogni continente; i veri e propri tradimenti di Gorbaciov, la mancata vittoria, prima di lui, della linea Andropov, l’accidia dell’Armata Rossa, incapace di respingere il “golpe” di El’cin: tutto ciò è stato decisivo. Tuttavia, la base materiale della resa e dello scioglimento dell’URSS non può che rintracciarsi, innanzitutto, sull’assenza – infine – di un’economia forte, di forze produttive in grado di sostenere lo scontro e preparare il futuro. Ed è questa un’ulteriore lezione che, oggi, ci viene dallo sviluppo cinese: le basi materiali e lo sviluppo delle forze produttive garantiscono anche il futuro del socialismo. Significativo, da questo punto di vista, è il rilancio, avvenuto al XIX Congresso del PC Cinese, dei valori politici e ideali del socialismo, del progetto rivoluzionario a breve e lungo termine.

Noi riteniamo che il passaggio, in Cina, dalla Rivoluzione Culturale alle “Quattro Modernizzazioni” e poi al progetto compiuto di “socialismo con caratteristiche cinesi” sia stato non solo necessario per la Repubblica Popolare Cinese e per il popolo cinese (per tanta parte uscito dalla miseria ed entrato nella modernità), ma anche per l’intero arco delle forze antimperialiste, anticolonialiste e comuniste del mondo, che dopo la scomparsa dell’URSS hanno ritrovato nella Cina dello sviluppo economico, e nei BRICS, una sponda potente e un punto di riferimento solido. Non è la questione o il desiderio di un nuovo “faro internazionale”, del quale i partiti comunisti del mondo e le forze antimperialiste e rivoluzionarie non hanno bisogno: è la questione di un’accumulazione di forze materiali (e, dunque, dialetticamente, ideali) sul piano mondiale, capace di fronteggiare e far arretrare le forze imperialiste.

La Rivoluzione Culturale cinese aveva fatto innamorare di sé anche la piccola borghesia occidentale di sinistra, molto e idealisticamente attratta dalla miseria e dal sacrificio del popolo cinese, “esempio” – per la piccola borghesia – di “una più alta vita”. La Cina aveva invece bisogno di ergersi nel mondo attraverso quello che lo stesso Marx individuava come il motore della Storia: lo sviluppo delle forze produttive.

Le concezioni politiche e teoriche che vanno forgiandosi in Cina, in questa fase di impetuosa crescita, sono già e potranno ancor più essere – senza rapporti di subordinazione, ma con rapporti leali e creativi – ricca materia teorica per altre esperienze di sviluppo socialista: il ruolo guida – nel progetto di sviluppo delle forze produttive – del Partito Comunista Cinese (ruolo guida che mutua la concezione leninista delle “alture strategiche”); il Partito Comunista come avanguardia del proletariato e della Nazione, in una visione della “totalità delle cose”, della fase e del quadro sociale e politico, una pratica della totalità volta a trainare tutto l’immenso Paese cinese verso il socialismo; l’unità transeunte tra Partito Comunista, proletariato e borghesia, nella fase storica in cui essa è funzionale allo sviluppo delle forze produttive ed esse alla transizione al socialismo; la sollecitazione strategica alla costruzione delle “aree speciali” neocapitaliste, aventi il compito di accelerare i processi di accumulazione della ricchezza generale al fine di altri investimenti sociali, tecnologici, scientifici; l’attenzione e la lotta del Partito contro le inevitabili aree di corruzione che si aprono (come si sono, peraltro, aperte anche nell’URSS priva di mercato) nel “socialismo di mercato”; la consapevolezza (che il Partito Comunista Cinese ha totalmente e lucidamente) delle inevitabili contraddizioni che la presenza, voluta dallo stesso progetto socialista, di un neocapitalismo interno, produce in termini di pulsione al potere politico da parte del potere economico accumulato dal neocapitalismo e, dunque, l’apertura di una lotta di classe sociale e politica che il Partito Comunista, dopo aver provocato, vuole e deve vincere.

La stessa «Teoria delle tre rappresentatività» (l’unità storica tra operai, contadini e intellettuali, che deve allargarsi alla cultura d’avanguardia e agli interessi di massa), appare un’innovazione funzionale alla fase di transizione cinese, una linea, peraltro, già praticata da altre esperienze rivoluzionarie e comuniste di altri Paesi e in altre fasi storiche.

Negli odierni passaggi cruciali della politica cinese e nelle stesse scelte strategiche del Partito e del governo della Repubblica Popolare è confermata in toto la bontà marxista della centralità dello sviluppo delle forze produttive: nel Piano Quinquennale 2016-2020 (rilanciato dal XIX Congresso del PC Cinese) viene presentato un immenso progetto ambientalista, di sviluppo ecocompatibile che non ha pari al mondo e che solo avendo sviluppato precedentemente le forze produttive ora può concretizzarsi.

Sappiamo che l’imperialismo, specie quello nordamericano, teme lo sviluppo cinese e ha gli occhi, e non solo gli occhi, puntati su Pechino: sarà nostro dovere di comunisti, di internazionalisti, stare dalla parte giusta, dalla parte della Repubblica Popolare Cinese e del Partito Comunista Cinese.

Passiamo al quarto punto (quale orizzonte apre al movimento comunista europeo e italiano la vittoria del “socialismo con caratteristiche cinesi”).

Indubbiamente, il radicale cambio del quadro internazionale a sfavore del fronte imperialista che ha trovato il proprio epicentro nei successi della Repubblica Popolare Cinese offre oggettivamente alle forze comuniste, antimperialiste, rivoluzionarie mondiali, anche a quelle italiane, un più pieno senso del loro essere e della propria “missione storica”. Il nuovo quadro internazionale dice ai comunisti che operano nelle cittadelle capitalistiche, che operano in Italia, che il loro progetto di trasformazione non è idealista ma razionale, che non sfarfalleggia in uno stravagante empireo ma trova solide basi materiali nella stessa, odierna, storia concreta e in divenire.

Naturalmente, rispetto ad un quadro mondiale che rafforza l’aspetto oggettivo della trasformazione in senso rivoluzionario, in Italia, come altrove, emerge un aspetto soggettivo rivoluzionario di drammatica fragilità e persino inconsistenza. È a partire da questa considerazione che i comunisti italiani, consapevoli sia del quadro oggettivo internazionale favorevole al progetto di cambiamento radicale che della fatiscenza del soggetto rivoluzionario italiano di fase, devono porsi la questione, primaria, della costruzione della soggettività comunista e rivoluzionaria. Del partito comunista in Italia.