Relazione introduttiva all’Assemblea costitutiva

di Alessandro Volponi

Si svolge questo nostro incontro sullo sfondo di un Paese segnato da una decadenza pluridecennale, nel corso della quale conformismo e opportunismo sono dilagati ben oltre l’orto della politica politicante. Non mancano, però, focolai di rivolta o movimenti monotematici che perseguono obbiettivi sacrosanti, episodi straordinari di protagonismo operaio (GKN) e minuscoli partiti antisistema invisibili e immobili, insomma “non tutto è di plastica, qualcosa ancora freme, frigge” per dirla con Paolo Volponi, ma il panorama è desolante e, apparentemente, senza via d’uscita. Costituire un Centro Studi intitolato a un grande del marxismo, fondato su inequivocabili premesse teoriche, mirato a socializzare conoscenze, a proporre temi di ricerca e a preparare, in definitiva, un programma di alternativa di società, è un progetto ambizioso e impegnativo che va realizzato con umiltà e tenacia.

“Solo da un lavoro comune e solidale di rischiaramento, di persuasione e di educazione reciproca nascerà l’azione concreta di costruzione”, questa asserzione, contenuta in un articolo intitolato “Democrazia operaia” apparso ne L’ordine nuovo del 21 giugno 1919, ci ricorda lo straordinario esordio di un intellettuale collettivo formato da giovani eccezionali studiosi e da addetti alla produzione, l’avanguardia operaia torinese, che insieme progettarono di governare le fabbriche e lo Stato.

Potrà sembrare stravagante, a questo punto della relazione, un panegirico della memoria finché non si consideri che la memoria è un nemico giurato del trasformismo, del malgoverno, della criminalità organizzata, del fascismo e dell’imperialismo ed è chiaro che la Storia e il suo uso pubblico sono un grande, importante, terreno di lotta tra progresso e reazione. Non solo, ma se “il vero è l’intero”, per intero dobbiamo intendere anche la storia di ogni singolo problema: le cause fisiche di un disastro ambientale, ad esempio, sono le cause prossime ma la storia del disastro è fatta di paludi bonificate, di fiumi tombati, di sviluppo agricolo intensivo, di mancata disciplina urbanistica, etc.

Così il disastro della pubblica amministrazione o la stagnazione lunghissima della nostra economia andrebbero affrontati a partire dalle loro storie e dalla loro storia comune.

L’uso politico della storia può sconfinare nel ridicolo come quando si ricercano collegamenti diretti tra i fascisti al governo e il ventennio, accompagnati da richieste di dichiarazioni nette di antifascismo, autentiche istigazioni all’ipocrisia; non perché manchino quei collegamenti ma perché ha pesato, e ancora pesa, come un macigno sulla nostra società il fascismo DOPO il fascismo. Non solo l’eredità del fascismo – corruzione e inefficienza burocratica, anticomunismo fanatico, conformismo e spirito gerarchico, annientamento del senso dello Stato (quel poco che l’Italia liberale aveva diffuso) e della dignità nazionale (si pensi all’Italia fascista nel rapporto con la Germania nazista ) –, non solo l’eredità ma l’attività: lo stragismo e il golpismo, sempre al servizio del più forte, stavolta gli Stati Uniti, ieri il Terzo Reich, con degne collaborazioni, mafia, ndrangheta, P2 e apparati dello Stato “deviati”.

L’attuale connubio NATO-nazisti ucraini (anch’esso ha una storia e risale all’immediato dopoguerra), NATO-terroristi, è per noi un orribile film già visto fino alla nausea. Storia italiana dunque, in primo luogo, del lungo dopoguerra, inseparabile, però, dal contesto internazionale, storia difficile, opaca, costellata di crimini, storia di una democrazia ricattata e snaturata, di una Costituzione ignorata, di una sovranità limitata, per usare un eufemismo, condizioni che non impediscono al movimento operaio e alla sua espressione politica di crescere lentamente, attraversando gli anni ‘50 (il fascismo in camicia bianca) e gli anni ’60 quando le minacce golpiste inibiscono o condizionano pesantemente i timidi tentativi di riforme del centrosinistra.

A cavallo dei due decenni, intanto, si è compiuta la grande trasformazione del Paese col contributo decisivo delle Partecipazioni statali e in particolare dell’ENI di Mattei che costruisce una politica economica estera indipendente (è semplicemente grottesco il tentativo di intestare a Mattei la politica economica estera della Meloni, la giovane recluta del più servile atlantismo). È, però, nel biennio ’68-’69 che affonda le sue radici la breve stagione “costituzionale” del nostro dopoguerra; dal dicembre ‘69 al ‘78 si succedono: la liberalizzazione degli accessi all’Università, l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario, lo Statuto dei diritti dei lavoratori, il divorzio, gli asili nido pubblici per bambini da zero a tre anni, la tutela delle lavoratrici madri, la scuola a tempo pieno, l’obiezione di coscienza, la tutela del lavoro a domicilio, i “decreti delegati” sulla democrazia nella scuola, il nuovo diritto di famiglia, i consultori per la maternità e la contraccezione, la riforma penitenziaria, la legge per la prevenzione e cura della tossicodipendenza, la legge per la tutela delle acque, la legge di parità di genere sul lavoro, l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, la legalizzazione dell’aborto, la chiusura dei manicomi e l’abrogazione delle attenuanti per delitto d’onore e del “matrimonio riparatore”.

Sono tutti figli della rivolta dei giovani, che mise al centro il Vietnam e la struttura autoritaria della società italiana, e dell’autunno caldo (’69), momento straordinario nella storia del movimento operaio italiano: salario, diritti, salute, sicurezza e democrazia nei luoghi di lavoro. Né vanno dimenticate le fortune elettorali del PCI, quanti diritti civili sono stati strappati con un partito che ancora metteva al centro il lavoro e il salario! Ma proprio nel giorno in cui il Senato approva lo Statuto dei diritti dei lavoratori (12-12-1969) ha inizio la strategia della tensione con la bomba di piazza Fontana a Milano; mentre i massacri di sindacalisti e lavoratori nell’immediato dopoguerra riuscirono a depotenziare il vivacissimo movimento contadino in Sicilia, con la mafia in prima linea, il nuovo stragismo sembra fallimentare sino all’affaire Moro. Nel 1975 il salario reale del metalmeccanico italiano è il più alto in Europa, presto l’inflazione a due cifre e poi lo svuotamento progressivo del meccanismo di rivalutazione automatica si incaricheranno di ridimensionarlo drasticamente; nel 1976 il PCI vede il culmine del consenso, l’anno prima aveva fatto man bassa nelle amministrative, Roma conobbe la sua prima amministrazione onesta ed efficiente dall’epoca di Ernesto Nathan, così Napoli, già feudo dei Lauro e dei Gava, sembrò avviata ad una luminosa rinascita democratica, le regioni rosse, oasi di buongoverno nel mondo mefitico della politica italiana, rompevano l’isolamento. Il leader di quel PCI incarnava la diversità comunista e seduceva i ceti medi “riflessivi”.

Quello che Pasolini chiamò uno Stato nello Stato, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, sembrava raccogliere i frutti di una lunghissima battaglia per l’egemonia che affondava le sue radici nei Quaderni del carcere. La reazione è tremenda, pensate a quanti fatti avvengono tra il ‘78 e l’81 sul piano interno e internazionale: l’assassinio di Moro, la rapidissima scomparsa di Luciani, l’elezione di Wojtyla, sodale di Brzezinski, la strage di Bologna, la marcia dei sedicenti 40.000 a Torino e la resa immediata dei sindacati, l’elezione della Thatcher e di Reagan, l’attentato a Wojtyla e l’invenzione della pista bulgara, capaci di incendiare la Polonia. Intanto in Sicilia si spara: Terranova, Chinnici, Costa, Mattarella, Boris Giuliano, secondo La Torre condannati da un tribunale internazionale, e la sua stessa morte rinvia ad un duplice movente, il disegno di legge antimafia e il movimento contro i missili a Comiso del quale è il principale animatore. Ma si spara anche a Milano, nel ’79 è assassinato Ambrosoli, mandante Sindona, e in quello stesso anno vengono arrestati Baffi e Sarcinelli, la Banca d’Italia aveva rifiutato di salvare la banca di Sindona e la magistratura romana era al servizio di Andreotti, il presidente del Consiglio che fu sostenuto anche dall’astensione del PCI. Il compromesso storico, figlio anche del trauma cileno, proposto da Berlinguer, fu una risposta adeguata a tale sfida? Fu il risultato dell’analisi concreta della situazione concreta?

A fronte dello spietato realismo di Lenin, Berlinguer è un “cavaliere della virtù” destinato a infrangersi contro il duro scoglio della realtà ma la sua proposta non discende neanche da un’analisi “molecolare” della società italiana di impronta gramsciana, non solo le masse cattoliche sono idealizzate ma la stessa NATO diviene un “ombrello protettivo”. La NATO non è mai stata un’alleanza difensiva (con tutte le sue guerre illegali, l’art. 5 è scattato una sola volta per la strage del Bataclan contro l’Isis, lo Stato islamico ), inoltre, i suoi padroni negli ultimi anni avevano finanziato, diretto o ispirato la distruzione fisica dell’enorme Partito comunista indonesiano (un milione di morti?) nel ’65, l’anno dei bombardamenti a tappeto sul Vietnam del Nord, il golpe in Grecia nel ’67 (dove saranno addestrati molti stragisti italiani), il golpe cileno del ‘73 e intanto continuavano a istruire i torturatori e gli specialisti antiguerriglia sudamericani (i capiscuola furono importati dalla Germania nei primi anni del dopoguerra) e a rifornire di esplosivi i terroristi neofascisti in Italia.

A mio avviso, Aldo Moro aveva un’idea molto più realistica della D.C. e dei suoi elettori e quando comprende, da prigioniero, che gli americani hanno una sponda importante nel suo partito comincia a raccontare la D.C. e a raccontare il doppio Stato ma i “rivoluzionari” gli tappano la bocca per sempre e occultano parte delle sue carte. Anche in questa vicenda, che segna una svolta nella storia del Paese, il PCI si attesta sulla linea della solidarietà nazionale, si confonde nel partito della fermezza con i complici nostrani della più insidiosa tra le trame atlantiche. Da questo terribile ’78 inizia il declino inarrestabile del comunismo italiano, interrotto soltanto dall’omaggio postumo che il Paese rende alla statura morale di Enrico Berlinguer alle europee dell’84 ma il processo degenerativo che ha portato alla Bolognina, e che tocca il fondo con Renzi, non è iniziato col declino elettorale; l’ultimo Amendola chiama all’impegno per sostenere il marxismo tra le culture del partito ed esprime la sua preoccupazione: i giovani non dicono quello che pensano e si guardano intorno prima di parlare. Schietto sino alla brutalità, ci informò che i non comunisti erano dentro e minacciavano l’egemonia marxista nel partito; guardando meglio intorno a sé avrebbe realizzato che anche tra i meno giovani c’erano non comunisti, magari destinati ad una prestigiosa carriera. A scanso di equivoci, non abbiamo nulla in contrario alla collaborazione nella ricerca e nello studio con non comunisti onesti e capaci di fornire contributi interessanti in questioni rilevanti. Uno dei compiti dei nostri gruppi di lavoro sui temi che andrò ad illustrare dovrebbe essere proprio il confronto col meglio della cultura borghese.

Il processo degenerativo del PCI, scandito dalla scomparsa progressiva dei grandi vecchi, coinvolge inevitabilmente il circostante: CGIL, mondo delle cooperative, stampa di area, etc. È stato un processo lento e graduale, almeno fino all’ultima fase, al pari di tante socialdemocrazie europee e dello stesso PCUS, all’interno del quale un Eltsin costruisce la sua carriera. Impressionante è, invece, la rapidità con cui si consuma la vicenda del partito che nutrì e dichiarò l’ambizione di rifondare il comunismo. A pochi anni dalla sua nascita, una parte di quel partito si trova al governo quando dagli aeroporti italiani la NATO bombarda Belgrado, pochi anni più tardi il monarca di quel giovane partito baratterà la presidenza della Camera con la totale irrilevanza nel governo del Paese. Ed è proprio dalla storia che vengono i primi segnali: la resistenza “angelicata”, il riconoscimento delle foibe, etc. Insomma, il segretario del sedicente partito della rifondazione comunista era un anticomunista! L’altro segnale, meno vistoso, è la dissoluzione del Comitato scientifico per il programma, ostacolo ad un accordo senza programma col centrosinistra. Intanto, gli ex comunisti rivalutano Craxi nel confronto impudente con Berlinguer, dimostrano la loro affidabilità atlantica e lo zelo europeista, avviano, in nome del riformismo, tutte le controriforme che caratterizzano il centrosinistra e che Berlusconi non è in grado di realizzare. Il riformismo, spero di non scandalizzare nessuno, può essere una cosa seria; pensate al giudizio di Gramsci su Matteotti: non è uno di quegli avvocati socialisti che fa i comizi sull’aia dei contadini ogni cinque anni, Matteotti organizza cooperative, difende i diritti dei lavoratori.

Se questa rozza descrizione dei fatti si avvicina alla realtà, possiamo meravigliarci della catastrofe politica, sociale e, prima di tutto, culturale che oggi viviamo? La stessa narrazione della guerra in Ucraina ne è testimone, il delirio propagandistico ha costruito il capovolgimento della realtà per cui la NATO è al fianco della democratica Ucraina combattente per la libertà, dove non si tratta di misurare il grado di democrazia o di presenza criminale nei due Paesi belligeranti, non sarebbe difficile in base a dati oggettivi, e neppure di misurare l’autenticità della solidarietà putiniana verso il martoriato Donbass, la questione vera è la NATO e la lunga transizione in corso degli USA dall’egemonia al dominio, col ricorso sempre più frequente alla guerra. Mai, forse, abbiamo avuto condizioni oggettive così favorevoli (crisi dell’imperialismo, crisi ambientale, povertà di massa nei Paesi “ricchi”, assenza di futuro per i giovani), mai condizioni soggettive più sfavorevoli per la prospettiva socialista. È infinitamente più presente l’idea della fine del pianeta che l’alternativa al capitalismo e, d’altra parte, che la civiltà sopravviva al capitalismo è tutt’altro che una certezza.

Come dovrà articolarsi, dunque, il Centro studi? Secondo la nostra proposta, in gruppi di lavoro distinti per aree tematiche che sono le seguenti:

 – Questioni internazionali: questo gruppo potrà disporre, tra l’altro, dei rapporti internazionali politici e culturali che sono stati costruiti negli anni e che continuano ad estendersi e ad approfondirsi, dovrà insegnarci a guardare il mondo e l’Occidente con gli occhi degli altri.

– Marxismo e teoria della rivoluzione in Occidente: la chiarezza delle premesse teoriche è la migliore garanzia di unità e di produttività.

– Storia del movimento comunista: penso dovrà dedicare particolare attenzione al più recente passato con uno sguardo aperto all’Europa e soprattutto al mondo.

– Economia e politiche economiche: i temi forse più urgenti sono il salario, il fisco, il problema del debito e della povertà dello Stato che è anche un problema per la democrazia ma l’obiettivo di fondo è costruire un programma organico di medio periodo per l’economia italiana.

– Lavoro e Sindacato: retribuzione e tempi di lavoro in Italia sembrano il risultato di una resa senza condizioni, la manomissione del diritto del lavoro, i nuovi lavori, rappresentanza e democrazia sindacale sono temi cruciali che richiedono proposte innovative oltre che il ripristino di garanzie “classiche”.

– Stato, autonomie, democrazia, Giustizia: anche la crisi dello Stato si manifesta in Italia con una specifica, particolare gravità e l’attuazione del PNRR mostrerà anche all’Europa il disastro della pubblica amministrazione.

– Diritti civili e questioni di genere: per noi i diritti civili sono una cosa seria non una bandierina, quasi unica distinzione tra destra e centrosinistra praticamente omogenei, in particolare il più dimenticato, il diritto di cittadinanza per la parte del proletariato che vive e lavora in Italia, che in Italia paga le tasse ma non può votare.

– Sanità e Stato sociale: il collasso della Sanità pubblica e la povertà di massa costituiscono emergenze drammatiche.

– Questione meridionale: in realtà, la questione meridionale è questione nazionale e la sua soluzione è parte decisiva della risposta necessaria alla crisi italiana ma agli straordinari compagni meridionali spetta il compito principale di istruzione e proposta.

– Scuola, università, ricerca: al di là delle chiacchiere su istruzione e ricerca=futuro, questi settori versano in una crisi profonda, dovuta, in parte, al sotto finanziamento mentre il diritto allo studio è sempre più compromesso.

– Arte, cultura, comunicazione: entrare in sintonia con le antenne più sensibili ai movimenti profondi della società è forse il modo più utile di prepararsi a comunicare i nostri contenuti, anche i più complessi, traducendoli nel linguaggio più semplice e attraente.

– Ambiente, territorio, urbanistica: molti danni sono irreparabili e la gestione capitalistica della transizione energetica contiene un ossimoro insuperabile, profitto-ambiente; solo un cosciente movimento di massa può arginare la crisi ambientale se, però, saprà superare i limiti inevitabili di ogni movimento monotematico.

 I gruppi di lavoro saranno, naturalmente, liberi di modificare le denominazioni proposte, di scorporare ambiti di ricerca o di accorparli, tutti i compagni potranno suggerire nuovi campi di studio o ridefinire i confini delle aree proposte, quel che salta agli occhi è l’esistenza di intersezioni profonde tra diverse aree, di qui la necessità di apertura reciproca tra i gruppi di lavoro che nel tempo, ne sono certo, si arricchiranno di nuove competenze e si gioveranno di un coordinamento unitario assicurato dal Consiglio direttivo. Essi potranno operare con disparati strumenti: convegni, seminari, pubblicazioni, attivando corsi di formazione, richiedendo interviste per ricercare interlocuzioni.

Malgrado la sua lunghezza questa relazione non è stata esauriente, spero almeno sia stata stimolante.

Vi ringrazio per l’attenzione.