Costituzione e politica economica

di Alessandro Volponi, docente di filosofia, presidente del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”

È possibile desumere dal testo della Costituzione i lineamenti generali della politica economica che ogni governo della Repubblica dovrebbe perseguire? Lineamenti generali ovviamente e non un articolato complesso di provvedimenti e atti valido per tutte le stagioni, per ogni fase del ciclo economico, per ogni grado dello sviluppo. Cercherò di mostrare che è possibile, anzi necessario, solo dopo avere esaminato alcuni articoli che precedono il titolo III della prima parte della Costituzione (Rapporti economici) e che determinano, nell’insieme, una notevole espansione della spesa pubblica: l’art. 7 che costituzionalizza gli onerosi patti lateranensi; l’art. 9 che impegna i governi a promuovere lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, a tutelare ambiente e patrimonio storico e artistico; l’art. 10 che prevede il diritto d’asilo; l’art. 24 III comma che garantisce i mezzi per agire o difendersi davanti ad ogni giurisdizione ai non abbienti; l’art. 28 che estende allo Stato la responsabilità civile per atti compiuti in violazione di diritti da dipendenti dello Stato; l’art. 30 comma II che impone allo Stato il mantenimento dei figli in caso di incapacità dei genitori; l’art. 31 che assicura misure economiche per la formazione della famiglia e protezione per la maternità, l’infanzia e la gioventù; l’art. 32 che fonda il diritto alla salute e garantisce cure gratuite agli indigenti (già molto numerosi si erano moltiplicati nel corso della guerra); l’art. 34 che stabilisce l’istruzione obbligatoria e gratuita, almeno per otto anni, in un paese ancora afflitto da analfabetismo e semianalfabetismo di massa e che dispone inoltre borse di studio per i capaci e meritevoli che vogliano raggiungere i gradi più alti degli studi; l’art. 35 I comma che impegna lo Stato a curare la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori; l’art. 37 I comma che assicura alla madre lavoratrice una speciale adeguata protezione; l’art. 38 che istituisce il diritto al mantenimento degli inabili al lavoro, il diritto dei lavoratori ai mezzi per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria, infine il diritto dei minorati all’educazione e all’avviamento professionale; ancora l’art. 44 comma II prevede provvedimenti a favore delle zone montane e l’art. 45 a favore della cooperazione e dell’artigianato; infine l’art. 47 II comma richiede di favorire l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e all’investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese. L’applicazione fedele di queste norme non implicava sempre l’iscrizione di nuovi capitoli nel bilancio dello Stato ma certamente avrebbe comportato una grande crescita della spesa pubblica, fatta eccezione per i bilanci di guerra, il che avviene soprattutto a partire dalla breve stagione ’69-’80, il decennio delle riforme attuative di parti della Costituzione. Sul lato delle entrate, invece, la Carta costituzionale contiene pochissime indicazioni esplicite, ma decisive, altre indicazioni risultano per via induttiva. In primo luogo abbiamo l’art. 53 che prescrive l‘universalità dell’obbligo fiscale e il suo carattere progressivo e poiché la progressività è difficilmente o niente affatto applicabile all’imposizione indiretta, ne discende una preferenza per l’imposizione diretta e già questo apparve e fu una rottura non solo col fascismo ma con tutta la tradizione liberale imperniata sulla tassazione dei consumi popolari. L’altra indicazione esplicita è contenuta nell’art. 42 dove si trova l’unica menzione di una tassa nell’intera Costituzione ed è molto significativo che si tratti della tassa di successione, una tassa non solo diretta ma patrimoniale. A chi sembrasse fuori posto l’art. 53 (inserito nei rapporti politici invece che nel titolo III), mi limito a ricordare che all’origine della rivoluzione francese c’è una paurosa crisi della finanza pubblica e la questione delle immunità fiscali del clero e dell’aristocrazia, ricordo anche lo slogan della rivoluzione inglese e poi americana: nessuna tassazione senza rappresentanza. La scelta dei costituenti fu, dunque, di considerare la questione fiscale (chi paga per i nuovi diritti “costosi” oltre che per le tradizionali funzioni dello Stato?) oggettivamente politica. C’è poi il secondo comma dell’art. 4 che sancisce il dovere di concorrere al progresso della società, questa norma che non può tradursi nella coazione al lavoro, dato l’impianto liberale della Carta, deve almeno introdurre una discriminante qualitativa tra reddito da lavoro e rendita nel sistema tributario per avere una concreta rilevanza. Nei primi anni ’70 l’introduzione, tra l’altro, dell’imposta sui redditi delle persone fisiche sembrò applicare radicalmente il criterio della progressività con una gamma di aliquote che variava dal 10% al 72%. Riassumendo la nostra Costituzione prescrive che il suo progetto di civiltà debba essere finanziato percuotendo nell’ordine ricchezza dovuta alla fortuna (beni ereditati), rendite, reddito da lavoro ricco, reddito d’impresa che implica un’attività di direzione e un rischio legato ad ogni investimento, reddito da lavoro ed esenzione completa per il lavoro povero (è assurdo tassare un reddito che non permette di assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa secondo la lettera dell’art. 36). L’evasione fiscale, però, la corruzione e la spesa clientelare han fatto si che lo Stato sociale fosse finanziato in parte col ricorso al debito aggravando sempre più il bilancio con il costo degli interessi. L’evasione fiscale non è solo una violazione dell’art. 53, producendo un sistema de facto regressivo, ma è un vero e proprio attentato a quel progetto di civiltà che si era tradotto in un poderoso Stato sociale.

Lo sviluppo

La politica della spesa e delle entrate costituisce un capitolo fondamentale della politica economica, ma certamente non esauriente. Se combiniamo alcune norme come l’art. 4 (dovere di concorrere al progresso della società, l’art. 9 (la Repubblica promuove la ricerca tecnica) e l’art. 35 (la Repubblica cura l’elevazione professionale dei lavoratori) se ne ricava che i governi devono perseguire lo sviluppo non solo estensivo con la piena occupazione (art. 4 primo comma, il diritto di tutti al lavoro deve essere reso effettivo grazie all’attività dello Stato) ma anche intensivo con l’incremento della produttività derivante dalla crescente qualificazione dei lavoratori e dal progresso tecnologico. Lo sviluppo deve essere di qualità perché rispettoso del paesaggio, dell’ambiente, del patrimonio storico e artistico (art. 9) che sono fra l’altro fattori di crescita del turismo, perché immune dallo sfruttamento del lavoro infantile, minorile e delle donne (art. 37), perché caratterizzato dal razionale sfruttamento del suolo, dalla bonifica delle terre e dalla preservazione dell’economia montana che garantisce l’equilibrio idrogeologico (art. 44). L’artigianato, depositario di antichi valori culturali, non sarà travolto dalla modernizzazione del paese perché tutelato dallo Stato ed anzi destinato a crescere (art. 45 secondo comma) così come la cooperazione “senza fini di speculazione privata” luogo principe della democrazia economica dove i lavoratori-imprenditori sono i protagonisti dell’attività economica (art. 45 primo comma). Lo sviluppo di qualità deve essere accompagnato da un sano e “coordinato” esercizio del credito secondo l‘art. 47 primo comma che attribuisce allo Stato anche il compito di incoraggiare e tutelare il risparmio che nell’ottica tradizionale è la fonte di ogni investimento. Osserviamo en passant che la prima forma di tutela del risparmio è il contrasto dell’inflazione come insegnavano le esperienze postbelliche europee del ’900. Tutti questi obiettivi devono essere perseguiti all’interno del quadro istituzionale disegnato dal primo comma dell’art. 41 (L’iniziativa economica privata è libera) quindi all’interno di un’economia di mercato basata sulla concorrenza. Questo principio è però circondato da una serie di argini: l’attività dei privati “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (secondo comma), c’è da chiedersi quanta parte dell’attività economica in regime capitalistico, oggi come allora, sia in grado di superare l’esame imposto da questi parametri anche se applicati con indulgenza. Inoltre il terzo comma introduce il principio della programmazione (“la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e PRIVATA possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”). È chiaro che nella mente di una parte dei costituenti la logica del profitto è inesorabilmente in contrasto con l’utilità sociale, nel secondo comma dell’art. 41 il compromesso è basato sulla interpretabilità dell’enunciato ma l’art. 43 disegna con una certa precisione il profilo di un’economia mista in cui la presenza dello Stato non è determinata dalla contingente necessità figlia della crisi (i pensi al colossale salvataggio a spese del contribuente operato negli anni ’30) ma da una logica economico-sociale: servizi pubblici essenziali, fonti di energia, situazioni di monopolio e non di solo Stato ed enti pubblici si tratta ma anche di “comunità di lavoratori o di utenti”. La straordinaria presenza dello Stato imprenditore nella nostra economia è stata solo in parte figlia dello spirito della Costituzione, penso all’Enel, alla costosissima nazionalizzazione dell’energia elettrica che eccitò i golpisti nostrani, ma non all’Eni figlia del pionerismo visionario di Enrico Mattei. Per il resto le partecipazioni statali furono eredità della scandalosa economia mista di salvataggio d’epoca fascista e la loro estensione fu scandita da crac industriali e relativi interventi pubblici. Sta di fatto che esse furono protagoniste della ricostruzione e del boom ’59-’62 e che assicurarono al paese un’inedita relativa indipendenza economica, in particolare l’Eni divenuta protagonista nel mercato internazionale dell’energia e dell’industria estrattiva, e a me pare che la fine delle partecipazioni statali, corrose dal cancro democristiano, coincida con l’avvio del lungo processo di deindustrializzazione e colonizzazione del paese ancora in corso. Se solo pensiamo al ruolo che un’Eni interamente pubblica avrebbe potuto svolgere nell’attuale crisi dei prezzi dell’energia mentre l’Eni posseduta a maggioranza da un fondo d’investimento statunitense paga le imposte sui superprofitti, poche, all’estero dove ha trasferito la sua sede, comprendiamo quanto male fa al paese la violazione della Costituzione. Proviamo a riepilogare dunque i cardini della “Costituzione economica”: piena occupazione, è un valore in sé oltre che un mezzo della crescita; sviluppo di qualità, elevata produttività e alti salari corrispondenti ad una crescente qualificazione, senza inflazione, quindi senza svalutazioni competitive e deficit di bilancio fuori controllo; difesa e sviluppo dei settori tradizionali come agricoltura e artigianato; esclusione dei monopoli privati; programmazione e coordinamento di tutta l’attività economica, presumibilmente basata su incentivi e uso degli strumenti tributari per quanto riguarda i privati, dovendosi escludere l’economia di comando ma pianificazione (perché no ?) per le imprese pubbliche; intervento diretto del pubblico, Stato, enti pubblici, cittadini, nei servizi essenziali, acqua, elettricità, trasporto pubblico, ovviamente anche sanità e istruzione a nostro modo di vedere.

Il nuovo art. 81

Ad un primo sguardo sullo stucchevole copione che vede ogni anno, quale che sia la maggioranza parlamentare, ripetersi il tiro alla fune governo italiano-Commissione europea sul deficit del bilancio, l’innovazione dell’art. 81 costituisce una resa ed una manifestazione di zelo servile perché le parti in causa non nutrono neppure il sospetto che sia possibile una politica economica espansiva senza deficit o, peggio, perché una delle parti crede “nell’austerità espansiva”, una delle bufale più colossali che le menti degli apologeti del capitale e della “finanza sana” abbiano partorito. Detto ciò, è certo che la mitica crescita del PIL può conseguirsi solo per mezzo del deficit ? A leggere attentamente il nuovo 81 ci si avvede che al principio del pareggio di bilancio (primo comma: lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese) si accosta immediatamente una prima deroga: “tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo” come dire che ai deficit necessari (indispensabili?) nelle fasi discendenti dovranno seguire avanzi di bilancio nelle fasi ascendenti del ciclo. Più esplicitamente nel secondo comma si ribadisce il concetto: “il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare (sic) gli effetti del ciclo economico”, dove il moderno costituente, se non è un contemplativo, avrà voluto dire “contrastare gli effetti…”. Nello stesso comma è contenuta la seconda deroga: l’indebitamento è consentito “al verificarsi di eventi eccezionali”. Solo guerre, epidemie, catastrofi ambientali o anche una crisi tipo ’29 ? E quando gli eventi eccezionali dovranno considerarsi normali lo sarà anche l’indebitamento (lo è già e non solo in Italia ed è crescente anche l’indebitamento privato ma di questo si preferisce non parlare)? Torniamo a bomba, come si dice, è possibile una politica espansiva senza indebitamento? Certamente! Con due leve: una quantitativa, l’altra qualitativa. L’aumento simultaneo del livello delle entrate e della spesa in eguale misura ha un effetto moltiplicativo sul reddito nominale pari ad uno, quindi nettamente inferiore al moltiplicatore del deficit “keynesiano” (teorema di Haavelmo), lo spostamento della pressione fiscale dalle imposte indirette alle imposte sui profitti e, soprattutto, sul capitale, produce un aumento del reddito reale senza incremento del debito (Teoria generale delle imposte M. Kalecki). Sono recenti scoperte della scienza economica? La prima risale al 1945, la seconda al 1937. La combinazione delle due ricette rappresenta il contrario dell’universalmente fallimentare “austerità espansiva” basata su privatizzazioni, precarizzazione del lavoro, liquidazione dello Stato sociale etc. La nostra “Costituzione economica” conserva la stessa attualità di quelle lontane idee scientifiche ed è inapplicata allo stesso modo, forse la parte più “tradita” della Carta. Di fronte allo sfacelo della società italiana la Costituzione repubblicana, nella sua interezza, non sarebbe un bel programma di governo ed una via di salvezza per il paese?