“La luna sott’acqua”

Di Laura Baldelli

Il lungometraggio di Alessandro Negrini per un altro sguardo sul Vajont. Con le Storie delle persone

Alessandro Negrini, con La luna sott’acqua, si conferma un autore, un cineasta di contenuti, per stile narrativo ed impegno di artista che mette l’arte al servizio della collettività.

Negrini si è dedicato al suo lungometraggio per circa 10 anni, da dopo la scoperta di Erto, il piccolo paese più vicino all’invaso del Vajont, dove avvenne l’immane tragedia. Erto conta più sopravvissuti alla strage e meno danni alle case e i suoi abitanti sono ritornati, protagonisti di una Resistenza civile, perseverando nella quotidianità dei gesti, delle relazioni e nel rapporto con la natura di questo pezzo di Dolomiti friulane; Resistenza anche verso lo stato italiano che dichiarò inagibile il luogo e contrastò il ritorno in tutti i modi possibili.

Sulla tragedia del Vajont rimane una pietra miliare “l’orazione civile” di Marco Paolini, veritiera narrazione dei fatti, che sbaraglia le ipocrite ricostruzioni e celebrazioni, dove non si nominano i responsabili, colpevoli del “più grande disastro antropico della storia” come lo ha definito l’ONU, ed io aggiungo: causato dal capitalismo senza scrupoli, espressione del pensiero unico avvalorato da falsa scienza e tecnologia al servizio del profitto, stendardi di un pervasivo ingannevole progresso.  

Il film – che esce  in concomitanza dei 60 anni dell’immane tragedia umana, sociale, ambientale di quel 9 ottobre 1963 – è scritto nella storia dell’Italia peggiore, quella sottomessa ai poteri economici che continuano a causare i dissesti idrogeologici.

Intanto perché La luna sott’acqua? perché dopo quel lontano 9 ottobre 1963, l’invaso creò nebbia nel territorio e qualcuno disse: “ci hanno rubato anche la luna… è finita sott’acqua”.

Negrini in questi anni di riprese si è avvicinato non come documentarista che racconta una comunità, ma “insieme alla comunità”, seguendo l’approccio di Uliano Lucas e Mario Dondero, fotografi che non rubavano gli scatti, rifuggivano gli stereotipi narrativi e lontano dagli scoop, entrando in punta di piedi nelle storie dei soggetti fotografati, rendendoli consapevoli e protagonisti.

Questo è lo stile di Negrini, che si prende del tempo per entrare nella vita delle persone e raccontarle con quel suo sguardo poetico, quello che va oltre le apparenze, scava nei sentimenti e nei sogni.

Eppure racconta realtà e verità.

La luna sott’acqua è un film corale, dove oltre la comunità di Erto, sono cooprotagonisti lo spazio, sia quello abitato, sia quello della natura incantata e incantevole con i suoi suoni, la sua resistenza, ma anche il tempo che cambia e cattura anche il nostro vissuto personale.

Le due categorie principi della conoscenza, “lo spazio e il tempo”, sono alterate dal progresso tecnico che le ha asservite alla produzione industriale; infatti lo spazio è sacrificato sempre in nome del progresso basato sul profitto contro i beni comuni ed il tempo è accelerato, disumanizzato, perché è il tempo della macchina, dell’ingranaggio della produzione, perché anche fuori della fabbrica, tutto è scandito dalla velocità nelle catene di produzione e montaggio, come nella famosa scena del pasto nel profetico film Tempi moderni di Chaplin.  

Gli abitanti di Erto invece si sono ripresi lo spazio e il tempo: questa è la loro pericolosa Resistenza civile.

Negrini ci ha restituito tutto questo, prendendosi tempo: 10 anni di riprese per conoscere, metabolizzare, entrare in relazione con le persone, contro ogni legge del capitalismo: lontano dal “tempo del mercante”, nato nei primi opifici tessili nel medio evo, quando il tempo della produzione sostituì il tempo scandito dalle funzioni religiose. Il regista invece “perde tempo” nell’epoca de “il tempo è denaro”, assaporando assieme ai cittadini di Erto, tra luoghi e ragionamenti, un tempo prezioso dove si ascoltano i sogni, “la nostalgia di un futuro non vissuto” e la nostalgia del paese che deve ancora venire”.

Anche per questo il film è un film politico, resistente e rivoluzionario.

Ma nel film c’è anche e soprattutto, un tempo narrativo che non è lineare: è il tempo del ricordo di Proust, è il tempo del flusso di coscienza di Joyce, è il tempo dell’inconscio di Svevo, dove il montaggio di Beppe Leonetti fa il suo lavoro di cucitura. Questo perché Negrini è un documentarista di sentimenti, come già ci ha rivelato in Tides, un racconto filmico speciale ambientato a Londonderry, dove l’acqua e le sponde del fiume Foyle sono protagoniste tra le comunità cattoliche e protestanti nella narrazione della guerra civile, ingentilita da ricordi e memorie filmiche musicali e danzanti.

Infatti Negrini è il regista della gentilezza… “duro senza perdere la gentilezza”.

La natura è viva grazie alla fotografia di Odd Geir Sæther che ci ferma il tempo e ci immerge nei luoghi, è viva per i suoi suoni del fonico di presa diretta Havir Gergolet; così rendono vivo il bosco franato con la montagna che sopravvive come capovolto, proprio come l’albero che cresce orizzontale e in tutte le stagioni scandisce il ritmo naturale del tempo.

Il film ha l’avvolgente voce narrante della doppiatrice Maria Pia di Meo, a noi familiare, che aleggia come una favola; poi, in un tempo che costruisce un puzzle, appaiono i personaggi: gli abitanti di Erto nella parte di sé stessi, quella più intima, dove il regista entra con pudore nelle case, restituendoci sentimenti, sogni, conversazioni e silenzi eloquenti, rumori di passi tra la neve, bevute all’osteria. Momenti di una comunità che impone la sua vita in un territorio offeso due volte: prima con lo scempio ambientale della tragedia costata 1917 morti nella vallata, e poi dalla dichiarazione di Erto paese inagibile, a cui gli abitanti non hanno obbedito, continuando ad abitare quel luogo coltivando la memoria e il futuro. Un esempio di Resistenza civile, in un luogo dove nonostante la catastrofe, gli interessi erano ancora forti e non si fermarono nello sfruttamento delle risorse idriche in nome del progresso.  

L’attaccamento al luogo ha prevalso e così tra case agibili e rovine che evocano la poesia di Ungaretti, la vita continua ricca di socialità e senso di comunità: stili di vita perduti in Italia, in cui trionfa l’individualismo tra false libertà e malesseri sociali.

La comunità ha un simpaticissimo sindaco, che il regista ha diretto come un vero interprete e  protagonista speciale; infatti nel film si racconta l’idea delle istituzioni per l’istallazione di un’opera d’arte nel luogo della morte, ma poi non se ne fece più nulla e comunque la comunità era divisa perché la vivevano come una profanazione dei morti mai recuperati sotto la diga;  Negrini invece ci propone gli abitanti creatori di opere d’arte: una è la cucitura con ago e filo dei frammenti di una foto ricordo del luogo spazzato via dall’acqua e dal fango, una ferita che diventa cicatrice; l’altra è il sindaco protagonista assoluto di scene che sono istallazioni di arte visiva create dal regista: immagini oniriche perfettamente realiste, in cui il sindaco è seduto ad un tavolo in una casa diroccata dove piove, un’altra scena siede circondato da piccole luci di candele in una grotta.

I cittadini di Erto sono opere d’arte con la loro vita, sono un esempio di rinascita e custodia di memoria di un passato doloroso, che però non ha insegnato nulla a chi detiene i poteri politici ed economici.

Il lungometraggio ha anche una storia dentro un’altra storia, un film nel film: sono gli Sloveni mandati al confino dalla Serenissima in tempi lontanissimi, a testimoniare come Erto fosse un luogo particolare, lontano dal progresso promosso dal potere dell’epoca.

Il film è nel circuito delle sale cinematografiche indipendenti e il regista è sempre presente in sala con la sua naturale leggerezza poetica, che dialoga con il pubblico… quasi un cinema d’altri tempi, vivo e resistente, libero e lontano dalle multisale dei blockbusters.