Salute, epidemie e capitalismo

di Paolo Crocchiolo *

Il mercato della salute

Il cosiddetto “mercato dei valori umani” costituisce l’implicito presupposto che sta alla base delle enormi sperequazioni in tutti i campi, in primis quello sanitario. Nell’economia capitalistica, e neoliberista in particolare, la vita di un lavoratore/lavoratrice dipendente ha un valore monetizzabile sia come produttore/produttrice (di beni materiali o intellettuali) in quanto può generare reddito al proprio “datore” di lavoro/investitore ma anche, come potenziale consumatore, in quanto può essere in grado d’acquistare i prodotti così messi in commercio (l’insieme di questi due aspetti equivale grosso modo a quanto la sua vita può essere valutata da una buona compagnia d’assicurazione). I paesi non industrializzati e, in particolare quelli africani, continuano ad essere considerati, nell’economia globalizzata, fonti di materie prime, il che significa che l’unica attività richiesta è quella della bassa manovalanza bracciantile, estrattiva, consistente in un serbatoio di manodopera ad infimo costo largamente in eccesso rispetto alle esigenze del mercato. Lo stesso vale, ad esempio, per la manodopera femminile semischiavistica dell’industria tessile (abbigliamento, tappeti ecc.), doppiamente discriminata, sia a livello economico che di genere. Dunque, è possibile calcolare che anche la morte di un gran numero di persone non possa influire significativamente sui profitti di imprese le cui vendite ed esportazioni sono rivolte a mercati molto più redditizi. Ne consegue una netta diversificazione, che comprende anche terapie e prestazioni sanitarie in generale, nella destinazione di quella parte delle risorse che può essere conveniente, nel calcolo dei costi/benefici, mettere a disposizione di ciascun membro delle società umane, a seconda di parametri quale la classe d’appartenenza, compendiata con il genere, la nazionalità, ecc., insomma con l’insieme dei fattori di discriminazione e stratificazione di cui s’è detto. La disponibilità di vaccini, farmaci salva-vita, prese in carico più̀ o meno tempestive da parte del personale e delle strutture sanitarie, sono di fatto regolate da tali criteri: insomma, in una società di classe, anche la medicina è una medicina di classe (come del resto lo è l’istruzione ecc.).

Epidemie e società

A partire dalla fine del secolo scorso, si è osservato il verificarsi, in varie parti del mondo, di focolai epidemici dovuti principalmente a virus dapprima ospiti di specie animali selvatiche e successivamente, in seguito a mutazioni generatrici di un cosiddetto “salto di specie”, adattati all’uomo (lo stesso HIV, derivato da un virus delle scimmie silvestri, i coronavirus della SARS e della MERS, il virus Zika, il virus Ebola, quello dell’influenza aviaria e il coronavirus COVID 19, agente della pandemia attuale). L’atteggiamento predatorio dell’economia neoliberista nei confronti della natura, oltre che della forza-lavoro, e quindi la distruzione di vaste aree sinora non antropizzate per fare spazio ad urbanizzazioni selvagge, ad attività estrattive di vario genere o ad agricoltura e allevamenti intensivi (essi stessi ottimale terreno di coltura per i virus), hanno rappresentato fattori decisivi per l’esposizione dell’uomo a questi mutanti virali.
Nel 2003-2004, allo scoppio dell’epidemia di SARS-CoV-1, dovuta anch’essa ad un coronavirus come quella attuale di SARS-CoV-2, le imprese farmaceutiche si mobilitarono per la produzione di un possibile vaccino, salvo “congelare” le ricerche allorché la circolazione del virus, che inizialmente aveva lambito paesi industrializzati come il Canada, fu circoscritta e l’epidemia debellata.

Il virus Ebola è anch’esso un RNA-virus, che può contare su un importante serbatoio animale selvatico e si trasmette per contatto diretto interpersonale. È uno dei virus più̀ letali, in quanto quasi invariabilmente provoca una sindrome emorragica generalizzata ad esito infausto. Avendo un tempo d’incubazione brevissimo, seguito da una sintomatologia eclatante, è più̀ facilmente identificabile e quindi circoscrivibile ad aree ristrette, prossime a quella del contagio iniziale. Negli ultimi decenni si sono osservate periodiche fiammate epidemiche nei paesi dell’Africa Centrale e Occidentale, la più̀ rilevante delle quali si sviluppò in Liberia, Guinea e Sierra Leone tra il 2013 e il 2015. Anche in quel caso l’epidemia, che comunque causò varie migliaia di vittime, colpì quasi esclusivamente le popolazioni locali e quindi, scongiurato il pericolo per il mondo occidentale, le ricerche per produrre un vaccino abortirono ben presto. Gli abitanti dei paesi periodicamente flagellati dalle recrudescenze di quell’epidemia, che ne avrebbero bisogno, non rappresentano evidentemente un mercato appetibile per le ditte farmaceutiche e quindi sono sacrificabili alle esigenze del sistema produttivo vigente. I pochissimi europei infetti vennero trattati tempestivamente con il siero iperimmune dei soggetti guariti, terapia applicabile solo a singoli casi selezionati, in quanto estremamente costosa.

Il caso dell’AIDS

Molti sforzi furono dedicati, soprattutto nei primi anni della pandemia, alla ricerca di un vaccino contro l’AIDS. Sino ad oggi però tali sforzi non sono stati coronati da successo, in primo luogo per l’altissima mutagenicità del virus. A partire dal 1996, però, con la scoperta degli antiretrovirali ad alta potenza (HAART, Highly Active Anti-Retroviral Therapy), le case farmaceutiche orientarono la loro produzione alla terapia farmacologica, ottenendo un drammatico calo della morbilità e mortalità da AIDS, tuttavia solo limitatamente ai paesi industrializzati che potevano permettersi l’acquisto e l’utilizzo su vasta scala di tali farmaci. Nei paesi in via di sviluppo, invece, la situazione rimase pressoché uguale a prima, con lievissimi miglioramenti registrabili solo nella ristretta fascia di popolazione in grado di accedere agli HAART. Non si contarono i morti dovuti all’ostinata difesa dei brevetti da parte delle case farmaceutiche, che impedivano a paesi emergenti come Messico, India, Brasile e Sud Africa di produrre in proprio gli antivirali rendendone così il prezzo molto più̀ accessibile anche alle classi meno abbienti, le quali costituivano d’altra parte, come abbiamo visto, la stragrande maggioranza delle vittime dell’infezione. Solo a partire dal 2000 le controversie giudiziarie per i brevetti, grazie anche all’intervento fra gli altri di Nelson Mandela, si risolsero con una sia pur parziale vittoria dei paesi in via di sviluppo.

La pandemia di Sars-CoV-2

Le stesse sperequazioni economiche e sociali che hanno favorito la diffusione degli agenti delle epidemie precedenti si sono ripresentate, ingigantite dall’ulteriore espansione del neoliberismo, in occasione della pandemia da Covid-19. La rapidità dei collegamenti aerei che mettono in contatto quotidianamente milioni di persone dei cinque continenti ha ulteriormente favorito la rapidissima diffusione del virus, ma l’origine della pandemia anche questa volta andava ricercata nell’azzeramento, da parte della galoppante speculazione industriale e commerciale delle grandi imprese multinazionali, delle zone di passaggio tra la fauna silvestre e gli insediamenti urbani, con la risultante esposizione ai mutanti virali delle popolazioni umane limitrofe. A ciò̀ si sono aggiunte, soprattutto in certe aree del pianeta, le massicce deforestazioni per far posto ad allevamenti intensivi di enormi quantità di animali ammassati in spazi ristretti e così trasformati in eccellenti terreni di coltura per infinite varianti di microrganismi.
In Italia, un ruolo fondamentale di detonatore del contagio, oltre che di peggioramento della prognosi dei soggetti colpiti, fu svolto dalla progressiva erosione dei servizi sanitari pubblici che, in regioni come la Lombardia, si era trasformata in un vero e proprio smantellamento degli stessi. Man mano che, nel quadro delle “nuove” politiche dell’economia di mercato (la “deregulation” del “meno stato, più̀ mercato”), venivano ridotti i fondi alla sanità pubblica riducendone così le prestazioni, erano paradossalmente gli stessi cittadini che reclamavano a gran voce la sanità privata, alla quale quegli stessi fondi affluivano sempre più̀ abbondanti con l’astuto sistema delle “convenzioni” (analogo a quello delle “parificazioni” fra scuole pubbliche e scuole private). È evidente che gli interessi degli investitori privati nella sanità puntava alla maggiore redditività dei “centri d’eccellenza” rispetto all’utilità pubblica, molto meno redditizia, della medicina del territorio, dei pronti soccorsi e dei posti letto in generale (ridotti in Italia di oltre il 35% negli ultimi 20 anni). La miscela esplosiva della carenza di personale medico e paramedico sul territorio associata alla bassa recettività dei posti letto nelle strutture ospedaliere, si è tradotta, ovunque il sistema della sanità privata aveva prevalso nel quadro della ristrutturazione neoliberista di cui s’è detto, in un marcato aumento del tasso di mortalità da Sars-CoV-2, in Italia significativamente più̀ alto rispetto a quasi tutti gli altri paesi europei. Nella primavera del 2020 il virus ha imperversato nelle zone più̀ densamente industrializzate dell’Italia settentrionale anche perché molti imprenditori, per non rinunciare alla preziosa fonte di reddito costituita dalla manodopera dei e delle dipendenti, hanno eluso i divieti delle autorità esponendo così al contagio anche chi durante il confinamento avrebbe dovuto astenersi dal lavoro; e ciò̀, nonostante le vibranti proteste dei sindacati. La tempestività della presa in carico, oltre alla disponibilità delle attrezzature di terapia intensiva, giuoca infatti un ruolo fondamentale nello scongiurare l’esito infausto della malattia (a conferma di ciò̀ si possono citare i casi, ad esito fortunatamente favorevole, di Silvio Berlusconi e di Donald Trump, quest’ultimo dovuto anche all’impiego della preziosa terapia a base di anticorpi monoclonali, riservata però, come s’è visto ad esempio nel caso dell’Ebola, a un ristretto numero di soggetti selezionati sulla base del loro “valore” sul mercato.

Salute e malattia nell’epoca del neoliberismo

Il Covid 19, pur essendo un virus a RNA come quello dell’AIDS, presenta tuttavia un tasso di mutagenicità non così elevato rispetto a quello, altissimo, dell’HIV, il che ha permesso di sviluppare una serie di vaccini in tempi molto rapidi (dovuti anche all’esperienza accumulata nei precedenti tentativi d’immunizzazione dai Coronavirus responsabili delle recenti epidemie di SARS e MERS). Mentre nel caso dell’AIDS si dovettero quindi aspettare 14 anni dall’inizio della pandemia per scoprire una terapia farmacologica efficace, in questo caso i tempi per scoprire un vaccino efficace si sono molto accorciati. Ma che si tratti di una terapia salva-vita o di un vaccino egualmente salva-vita, purtroppo il risultato è lo stesso, nel senso che tutti gli sforzi dei produttori e distributori rispecchiano inevitabilmente i criteri più̀ volte menzionati, cioè la rigorosa subordinazione nella produzione e distribuzione di questi preparati alle ferree logiche del mercato. L’ostinazione delle imprese farmaceutiche nel difendere la proprietà intellettuale dei vaccini anti-Covid e la supina accondiscendenza a tale principio delle istituzioni politiche europee e occidentali non fanno che ulteriormente porre in luce la disumanità del pensiero neoliberista, che privilegia il profitto ad ogni costo mettendo in secondo piano la vita delle persone.

Insomma, ancora una volta la scienza e la tecnica non si dimostrano neutre, ma piegate agli interessi e persino, letteralmente, alla sopravvivenza, della classe dominante. Anche in questo caso, tuttavia, come in quello dell’AIDS, la cieca avidità capitalistica non fa i conti con le conseguenze controproducenti generate dalle politiche di discriminazione ed esclusione risultanti dal mancato accesso alle cure delle classi e dei popoli a più basso reddito. Nel caso dell’AIDS, la discriminazione si traduceva infatti in un maggior rischio d’infezione anche per le classi privilegiate dei paesi più ricchi. Similmente, nel caso del Covid 19, lo scenario che si profilava era quello di creare, non vaccinando gli abitanti dei paesi più poveri, immense praterie umane in cui i virus hanno modo, replicandosi, di sbizzarrirsi in infinite mutazioni consistenti in altrettanto infinite varianti dell’RNA di cui sono costituiti, tra le quali alcune inevitabilmente, a lungo andare, resistenti ai vaccini. Come nel caso dell’AIDS, dunque, anche nel caso del Covid 19, l’impossibilità dell’eradicazione del virus, almeno a breve/medio termine, dovrebbe razionalmente imporre interventi efficaci (curativi o preventivi) atti a minimizzare la circolazione virale, il che però si potrebbe ottenere solo a patto che non fossero limitati ad un segmento ristretto della specie umana, ma fossero rivolti indistintamente a tutti i paesi del mondo e a tutte le classi sociali indipendentemente dal loro reddito. Ma è proprio questo che il libero mercato ed il profitto privato, per le ragioni che abbiamo visto, per loro stessa natura impediscono di realizzare.
Spesso gli imprenditori/investitori invocano “il rischio” a giustificazione dei superprofitti che permettono loro un livello di vita di gran lunga superiore a quello delle classi sociali a basso, o bassissimo reddito. Ma allorché il rischio si materializza, per una pandemia o magari per una crisi finanziaria ecc., pretendono di essere “garantiti” con rimborsi o “ristori” o ulteriori decurtazioni delle imposte, ovviamente sempre a spese del patrimonio pubblico, cioè con l’abituale sistema della privatizzazione dei guadagni mediante la socializzazione delle perdite. Più in generale, anche a livello globale le classi beneficiarie dell’attuale sistema politico- economico tendono, per mantenere e possibilmente accrescere i loro privilegi, a rinchiudersi entro i confini delle loro “fortezze”, scaricando sugli “altri” gli effetti deleteri del proprio agire predatorio nei confronti di natura e forza-lavoro (fame, conflitti, catastrofi climatiche, pandemie ecc.), cercando al contempo di evitare le possibili ricadute negative di tali politiche su se stessi.
Tutti i microrganismi sono opportunisti: non colpiscono a caso, ma s’infiltrano e attaccano là dove trovano i punti vulnerabili di quelli che sono i loro potenziali terreni di coltura. A differenza delle altre specie animali, in cui le risorse sono equamente distribuite in quanto legate al loro mero valore d’uso, nella nostra l’economia ha finito per basarsi sul valore di scambio di qualunque merce, compresa la forza-lavoro, materiale o intellettuale, e per conseguenza sull’accumulazione individuale, la rapina e il privilegio. È nel contesto di questa condizione umana che i virus e gli altri microrganismi agiscono, esacerbando le diseguaglianze che l’uomo stesso ha creato e insiste a perpetuare.

Si potrebbe anzi affermare che il neoliberismo stesso, attraverso i meccanismi di cui s’è detto, si stia traducendo in una sorta di “fabbrica” di malattie da inquinamento ed epidemiche ma, al contempo, anche di “rimedi” per curarle o prevenirle (questi ultimi però non riservati a tutti, ma solo a chi se li può permettere).

Il tabù ideologico dell’ineluttabilità del libero mercato/libero profitto/libera impresa/libera concorrenza/libero sfruttamento, ossia del liberismo selvaggio come modello teorico e strumento pratico di governo, anzi di “governance”, delle società umane, contrabbandato dal “pensiero unico” come il solo modello possibile, finisce quindi per ritorcersi contro tutti, dimostrandosi sempre più̀ inadeguato ad affrontare e risolvere i problemi che affliggono l’umanità.

* Già professore di Malattie Infettive e Tropicali presso l’omonima Clinica Universitaria dell’Ospedale Sacco a Milano, nonché funzionario direttivo responsabile del settore Epidemiologia Clinica del Global Programme on AIDS dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra. Ha ricoperto inoltre, come esperto del Ministero degli Esteri, il ruolo di coordinatore del Programma di Cooperazione Sanitaria del Governo italiano con la Repubblica dello Zimbabwe.