La fine della “pax americana” e il conflitto tra Stato di Israele e popolo palestinese

Per Meir Margalit e il Movimento pacifista israeliano

di Manolo Monereo*

Arenas de San Pedro, 29 ottobre 2023

Traduzione di Liliana Calabrese

Netanyahu non è lo Stato di Israele; Hamas non è il popolo palestinese. I due problemi sono collegati, ma non sono la stessa cosa. Le sfumature sono importanti per comprendere i conflitti e, soprattutto, per trovare soluzioni operative. Lo scontro tra il Segretario generale delle Nazioni Unite e il governo israeliano spiega molte cose. Una cosa è tentare di comprendere le ragioni di fondo che stanno dietro al conflitto e altra è legittimare le azioni del movimento Hamas; per il governo israeliano, ogni tentativo di porre la centralità della questione palestinese è sempre equivalso a mettere in discussione lo Stato di Israele e, senza sottigliezze, ad essere antisemita. I discorsi implicano le azioni e le scene drammatiche a cui stiamo assistendo nella Striscia di Gaza e, sempre più spesso, in Cisgiordania hanno a che fare con questo.

Per cercare di capire cosa sta succedendo, bisogna partire da tre grandi questioni interconnesse che rendono sempre più probabile un’escalation in Medio Oriente: a) i cambiamenti geopolitici globali e la loro incidenza in Medio Oriente; b) l’evoluzione della società e della politica in Israele e in ciò che resta delle aree di insediamento del popolo palestinese; c) il blocco consapevole e pianificato di qualsiasi via d’uscita dal conflitto che non implichi la fine del popolo palestinese come soggetto politico. Le tre questioni sono strettamente correlate. Tutti i fronti aperti (Europa/Ucraina; Mar Cinese Meridionale/Taiwan; Sahel/Africa) minacciano un’escalation e indicano che il confronto è ormai globale. È il segno dei tempi: il vecchio ordine si difende con tutto se stesso e il nuovo che emerge lo fa tra antagonismi e scontri sempre più aspri con la guerra, quella totale, sempre all’orizzonte. Una storia vecchia come il mondo.

La prima questione ha a che fare con la fine della pace americana, ovvero la crisi di un ordine politico, economico, ideologico e politico-militare che aveva organizzato il mondo secondo gli interessi americani dopo la disintegrazione dell’URSS e la dissoluzione del Patto di Varsavia. La grande transizione geopolitica che stiamo vivendo è percepita dagli attori del Sud globale (e il popolo palestinese è uno di loro) come una finestra di opportunità per cercare di risolvere vecchi problemi repressi e irrisolti che hanno comportato enormi sofferenze per le popolazioni. Lo Stato di Israele non è solo un alleato degli Stati Uniti, è un attore interno alla politica nordamericana, come hanno analizzato con grande acutezza Mearsheimer e Walt qualche anno fa. Nessuno può vincere le elezioni negli Stati Uniti senza il sostegno di questa enorme lobby. Inoltre, l’alleanza tra questa lobby e i cristiani fondamentalisti del Sud sta diventando sempre più decisiva nella politica interna americana. Ora assistiamo a qualcosa di diverso: il governo di Israele è per l’Occidente collettivo un’identità, un programma che rende fattibile l’intervento di truppe tedesche, francesi o italiane in suo aiuto, anche se guidate dall’onnipotente amico americano.

La seconda questione viene sempre taciuta: l’evoluzione politica e sociale della popolazione israeliana da un lato e del popolo palestinese dall’altro. Chi governa oggi lo Stato di Israele è una forza politica di dura destra in alleanza con l’estrema destra fondamentalista con un obiettivo chiaro e inequivocabile: porre fine alla presenza dei palestinesi nella Grande Israele. Nel settembre di quest’anno, Netanyahu lo ha spiegato in modo molto chiaro e arrogante all’Assemblea delle Nazioni Unite: Israele sta riorganizzando un nuovo Medio Oriente basato sul riconoscimento reciproco tra ebrei e arabi (la pace di Abramo), culminato nell’instaurazione di relazioni con l’Arabia Saudita. I palestinesi non comparivano nell’equazione nemmeno come problema: semplicemente non esistevano. Che lo Stato di Israele si trovi nel mezzo di una grave crisi politica non è più in dubbio; che sia sicuramente la più grave dei suoi 75 anni di esistenza è alquanto probabile. Il futuro democratico di Israele è legato, volente o nolente, a una soluzione democratica del problema palestinese. Il degrado della vita pubblica israeliana, il crollo della società civile e il dominio di forze fondamentaliste sempre più autoritarie hanno molto a che fare con i dilemmi esistenziali legati a questa questione cruciale.

L’altro aspetto del problema ha a che vedere con la drammatica situazione del popolo palestinese. Le condizioni economiche, sociali, sanitarie sono ben note. Gaza, con più di due milioni di persone stipate in un territorio di 365 chilometri quadrati, di cui più della metà sotto i 16 anni, vive sotto un blocco terrestre, marittimo e aereo strettamente controllato dal governo israeliano, da cui dipendono acqua, energia, cibo, medicine, eccetera; in altre parole, è un ghetto con altissimi tassi di disoccupazione, povertà e vulnerabilità alimentare. Il 70% sono discendenti dei rifugiati del ’48. La situazione in Cisgiordania non è migliore. L’Autorità Nazionale Palestinese controlla appena un terzo del territorio. La colonizzazione ha reso impossibile qualsiasi idea di autonomia sul territorio; gli insediamenti ebraici nell’area sono passati dai 200.000 degli anni ’90 ai 700.000 di oggi, molti dei quali armati, come stiamo vedendo in questi giorni in Cisgiordania.

Un giovane di 5 o 6 anni nel 2007 (inizio del blocco) ha vissuto come “normalità” un blocco permanente e come “anormalità” 5 grandi crisi/conflitti risolti manu militari dalle forze di occupazione israeliane. Qual è il futuro di questi giovani? Hanno un futuro? Sappiamo che per una parte sempre più consistente della popolazione palestinese l’Autorità Nazionale serve a poco o nulla, è percepita come debole, corrotta e incapace di risolvere i problemi esistenziali del suo popolo. Non hanno altra scelta che l’emigrazione o la resistenza.

In questi anni di arroganza e di spostamento ancora più a destra del governo israeliano, si è affermata una cultura dell’impunità. Lo Stato israeliano può fare tutto ciò che ritiene opportuno per difendere i propri interessi in patria o all’estero. Ha la licenza di intervenire in Siria, in Iran o in qualsiasi altro Paese in cui ritenga che il suo spazio vitale sia a rischio. Non vengono mai sanzionati e gli accordi delle Nazioni Unite vengono rifiutati nella misura in cui non sono in linea con le loro priorità politiche. Non rispettano nemmeno gli accordi – come quelli di Oslo – che hanno firmato. La loro sovranità è possibile perché hanno la garanzia degli Stati Uniti e di un Occidente che la considera un loro agente in un’area strategica chiave. 

Per anni, al popolo palestinese è mancata un’alternativa possibile e praticabile. Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra non lasciano alcuna via d’uscita, né due Stati né un unico Stato laico e multiculturale. Nel frattempo, il mondo sta cambiando rapidamente. Il governo israeliano non ha capito, o non ha voluto capire, i cambiamenti in corso. Il 1° gennaio entreranno nei BRICS Egitto, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Etiopia. Degli accordi di Abramo non è rimasto molto e dopo questa guerra ne rimarrà ancora meno. L’enorme presenza militare statunitense nell’area non può nascondere le sue grandi difficoltà. La Cina si muove con cautela e cerca di evitare un’escalation. Biden avverte l’Iran e gli Hezbollah che, se interverranno, saranno severamente repressi. Questo Iran non è più lo stesso di prima, ha alleanze strategiche con la Russia e la Cina, la sua potenza tecnologica e militare è cresciuta a tal punto da finire per essere il vincitore di un altro dei tanti conflitti creati e mal risolti dagli Stati Uniti.

Il 7 ottobre segna un prima e un dopo. L’attacco di Hamas è stato una sorpresa per il mondo intero e soprattutto per gli onnipotenti servizi segreti di Israele. Netanyahu cercherà di approfittare della situazione cercando di ricostruire l’unità del popolo ebraico, di “risolvere” il problema palestinese una volta per tutte e di regolare i conti con l’Iran e i suoi alleati nella regione. Non si tratta di illazioni. Recentemente è comparso un “libro bianco” dell’Istituto per la sicurezza nazionale e la strategia sionista, legato al Likud, in cui si propone l’espulsione dei palestinesi da Gaza e la loro integrazione in Egitto. Il piano è molto dettagliato e riflette elaborazioni da tempo sostenute da demografi e strateghi vicini al partito di Netanyahu.

La tragedia la stiamo vivendo in tempo reale. Le voci critiche sono poche e coloro che hanno il coraggio di farlo, parlano di una risposta sproporzionata. È più di questo, molto più di questo. Il governo israeliano, i suoi ministri parlano apertamente di vendetta. Le dimensioni sono così enormi che non è credibile che l’obiettivo sia quello di porre fine ad Hamas. Il presidente del Paese ha detto chiaramente che anche il popolo palestinese, i “gazawi”, sono responsabili. Pensare che l’unità di Israele e la pace nella regione possano essere costruite sull’annientamento del popolo palestinese significa non conoscere la storia. Prima di tutto, la storia degli ebrei e, soprattutto, non tenere conto che il vecchio mondo unipolare è in crisi ovunque e che l’onnipresente sostegno degli Stati Uniti e dell’Unione Europea non sarà più sufficiente.

* Intellettuale e dirigente storico del movimento comunista spagnolo; del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”.