Su Ludovico Geymonat

Il professor Silvano Tagliagambe ha inviato questo suo importante contributo al Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”. La redazione ringrazia il professor Tagliagambe per questa preziosa possibilità di pubblicazione e divulgazione.

di Silvano Tagliagambe

Ludovico Geymonat

In un’intervista autobiografica, curata da Mario Quaranta e pubblicata dalla rivista ‘Iride’ nel 1990 Ludovico Geymonat si esprimeva, a proposito della situazione complessiva del nostro paese, nei termini seguenti: “La cultura italiana odierna è invecchiata, inidonea a risolvere i problemi della società italiana; problemi che sono gravissimi e che ogni giorno si dimostrano più gravi. È avvenuta la resistenza, ha dato luogo a un periodo di riforme più o meno profonde della società italiana, ma i postulati di questa società sono rimasti gli stessi. Ebbene, non bisogna cadere nell’illusione che si possa trasformare l’Italia, che si possano affrontare i suoi gravissimi problemi senza una concezione filosofica. Sarebbe una terribile illusione, perché se la società cambia ciò è dovuto anche al fatto che ha raggiunto una visione nuova della storia dei processi sociali, dei processi causali, della natura stessa. E tutto ciò proviene appunto da una riflessione filosofica sulla scienza, sulla società. Ecco allora che il compito del filosofo è quello di tirare fuori, per così dire, dalla realtà, dalla scienza, una visione dello sviluppo della società italiana. Ho l’impressione che oggi anche la sinistra non comprenda che occorre una visione d’insieme, globale, della cultura italiana per poter giungere a una trasformazione reale della società italiana, per poter risolvere sul serio i problemi che oggi sono molti e molto gravi”[1].

Questa idea della centralità e della imprescindibilità di una visione filosofica generale, di una visione d’insieme globale ai fini non soltanto di un rinnovamento culturale, ma anche di un effettivo cambiamento della società e di quella modernizzazione in profondità di cui l’Italia avrebbe urgente bisogno è l’elemento costante che, pur tra fasi differenti del suo pensiero, caratterizza l’eredità che Ludovico Geymonat  ci ha lasciato,

Anche per quanto riguarda i caratteri di questa rifondazione della cultura italiana Geymonat, in quella stessa sede, è nello stesso tempo drastico e preciso: pere impegnarsi in un’opera di questo genere occorrebbe, prima di tutto, “riprendere Cattaneo come punto di partenza. È di lì che bisognerebbe partire per fare una rivoluzione culturale, rivoluzione che anche il PCI ha sempre impedito. Si dice spesso: Cattaneo era un moderato. Ma Cattaneo ha compreso che per rinnovare profondamente l’Italia occorreva una cultura scientifico-tecnica, una filosofia legata all’esperienza, un impegno civile. Ebbene, occorrerebbe accentuare l’aspetto di rinnovamento radicale di un tale programma, con l’obiettivo di non fermarsi di fronte a niente”.

“Non fermarsi di fronte a niente”, non cedere al conformismo e alle mode imperanti ed egemoni: si può assumere questo come motivo conduttore della sua vita e della sua attività filosofica. 

Nato nel 1908, alla fine del maggio del 1929, quando era ancora studente universitario, fu arrestato per avere sottoscritto insieme ad altri studenti dell’Ateneo torinese una lettera a Benedetto Croce con la quale si indirizzavano al filosofo neoidealista parole di solidarietà in relazione al suo intervento pronunziato in Senato contro il Concordato.

Nell’Ateneo di Torino, dove si laureò prima in filosofia (nel 1930) e poi in matematica (nel 1932), fu allievo di Erminio Juvalta, grazie al quale poté entrare in rapporto diretto con Federigo Enriques e poi con Piero Martinetti. L’incontro con quest’ultimo gli diede la possibilità di collaborare alla “Rivista di filosofia”, insieme ad altri giovani filosofi come Ennio Carando, Eugenio Colorni, Norberto Bobbio.

Nel 1934, essendo sprovvisto della tessera del partito fascista, fu costretto sia ad abbandonare il posto di assistente nella Facoltà di Scienze dell’università di Torino presso la cattedra di Analisi algebrica (posto ricoperto per tre anni, a partire dal ‘31-’32 e ottenuto prima ancora di essersi laureato in matematica), sia a rinunciare a sostenere l’esame di libera docenza in filosofia teoretica per cui aveva già presentato domanda.

Preclusagli ogni carriera accademica, grazie a una borsa di studio di sei mesi dell’Università di Firenze, nel corso degli ultimi mesi del ’34 e dei primi mesi del ’35 si recò in Austria, dove ebbe modo di prendere contatto con i principali esponenti del Circolo di Vienna, in particolare con Schlick. Nel 1935 pubblicò sulla “Rivista di filosofia” un saggio dal titolo Nuovi indirizzi della filosofia Austriaca nel quale illustrava le posizioni del neopositivismo.

Rientrato in Italia si presentò agli esami di abilitazione per la scuola secondaria superiore, prima per matematica e fisica e poi per filosofia e storia. Pur risultando vincitore in entrambi i concorsi con il massimo dei voti non poté tuttavia ottenere alcuna cattedra, sempre in seguito al suo rifiuto di prendere la tessera del partito fascista. Iniziò allora ad insegnare presso una scuola privata, l’istituto “Giacomo Leopardi” di Torino, ove restò fino al 1940.

Nel 1940 si iscrisse al PCI con la singolare “dispensa ideologica” (che aveva chiesto esplicitamente e gli fu, caso più unico che raro, concessa) di poter rimanere fedele alle proprie idee filosofiche neopositiviste, senza cioè essere costretto ad accettare l’ideologia ufficiale del partito.

Dopo l’8 settembre del 1943, assunto il nome di battaglia di “Luca”, entrò come partigiano combattente nella lotta di liberazione. Fu tra i promotori diretti di una delle primissime formazioni partigiane piemontesi, la 105a Brigata Garibaldi “Carlo Pisacane”. Subì per tre mesi il carcere tedesco. Combatté nelle valli del Po, del Cuneese, del Pellice poi, negli ultimi sei mesi di guerra, condusse vita clandestina a Torino come Commissario presso la Delegazione Garibaldi. Fu in questo periodo che riuscì a riordinare vari studi filosofici precedentemente elaborati, riunendoli nel volume Studi per un nuovo razionalismo, pubblicato dalla Casa editrice Chiantore nel 1945 con la data simbolica del 25 aprile. Si trattò, come Geymonat ebbe modo di spiegare più tardi, di una scelta intenzionale. “Ritornato in Italia dopo Vienna e iscrittomi al PCI, durante la resistenza era maturata in me la convinzione di avere una ‘missione’ culturale da svolgere in Italia. Forse peccavo di immodestia, non so. L’esperienza neopositivista mi aveva profondamente condizionato anche nella vita di tutti i giorni…Detestavo sempre di più le vuotaggini dell’idealismo italiano e avevo un’autentica allergia per l’imperante retorica fascista…”[2].

Dopo il 25 aprile 1945 fu incaricato della direzione del quotidiano “L’Unità” (edizione piemontese), che resse per qualche mese.

Nel 1946 la Facoltà di Scienze di Torino gli affidò l’incarico del corso, di nuova istituzione per l’ateneo torinese, di storia delle matematiche, lasciandogli, come ricorda lo stesso Geymonat nella sua Avvertenza alla Storia e filosofia dell’analisi infinitesimale, “la più ampia libertà nella scelta del programma” e incoraggiandolo anche “a legare i problemi storici con quelli, da lui più particolarmente sviluppati, di logica e di filosofia delle scienze”[3].

Nel 1947 ebbe il suo battesimo ufficiale il Centro di Studi Metodologici di Torino, che aveva avuto origine dagli incontri di vari intellettuali, tra cui inizialmente Geymonat, E. Frola, e P. Nuvoli a partire dal 1946. Alle riunioni successive presero parte N. Abbagnano, N. Bobbio, P. Buzano, B. de Finetti, E. Persico, F. Severi e altri ancora. Si trattava di un luogo d’incontro tra filosofi e scienziati che riflettevano insieme sulla loro pratica di ricerca.

Nel 1949, vinto il concorso a cattedra di filosofia teoretica, Geymonat prese servizio presso la facoltà di Magistero dell’Università di Cagliari, dove dal 1950 al 1952 assume anche l’insegnamento di matematiche superiori nella facoltà di Scienze.

Nel 1952 si trasferì a Pavia come titolare della cattedra di Storia della Filosofia.

Quattro anni dopo ebbe all’università statale di Milano la prima cattedra italiana di Filosofia della scienza, cattedra che tenne ininterrottamente fino al suo collocamento fuori ruolo.

Nel 1961, con l’appoggio del Centro di Studi Metodologici di Torino e in particolare di Piero Buzano, fece svolgere a Torino il primo Congresso nazionale di Logica, che vide una nutrita partecipazione sia di matematici, sia di filosofi. Nello stesso anno cominciò ad organizzare e a dirigere un Gruppo di ricerca per la logica matematica, patrocinato dal neonato Comitato per la matematica del CNR, nel quale si incontrarono per circa un decennio giovani studiosi interessati alla rinascita degli studi di logica in Italia e impegnati nello sforzo di colmare il grande ritardo che, in questo campo, l’Italia aveva accumulato rispetto ad altri paesi europei e agli Stati Uniti. Fra i primi componenti di quel gruppo ci furono Ettore Casari e Corrado Mangione, entrambi allievi diretti di Geymonat, accanto ad allievi indiretti come Evandro Agazzi, Marisa Dalla Chiara e altri giovani studiosi non legati all’insegnamento dello stesso Geymonat, come Carlo Cellucci, Flavio Previale, Gabriele Lolli, Roberto Magari, Pietro Mangani. Una delle prime iniziative di questo Gruppo, come ebbe a ricordare lo stesso Geymonat nella relazione da lui svolta in occasione del VII Congresso Nazionale dell’Unione Matematica Italiana, tenutosi nel 1963, fu quella di “preparare una sommaria guida bibliografica, rivolta soprattutto ai giovani, che vorrebbe fornire loro le prime, indispensabili informazioni orientative sui principali lavori, pubblicati negli ultimi undici anni, intorno ai grandi capitoli in cui si articola oggi la metamatematica”..

Nel 1965 si distaccò dal PCI, non rinnovando la tessera, dopo il congresso che, in seguito alla clamorosa rottura tra l’Unione Sovietica e la Cina, sancì la presa di posizione dello stesso PCI a favore dell’URSS e la condanna totale della linea cinese.

Si è spento nel mese di novembre del 1991.

Il triennio “cagliaritano” di Ludovico Geymonat, gli anni che vanno dal 1949 al 1952, è fondamentale nell’economia del suo percorso filosofico e scientifico, non solo per la pubblicazione sull’Enciclopedia italiana della voce «Logica matematica», ma anche per aver introdotto in Italia un nuovo approccio alla metodologia e al suo significato in campo filosofico e scientifico in un serrato dibattito con Silvio Ceccato. Sono di questo periodo le edizioni italiane, da lui curate, dell’Introduzione al positivismo logico di Weinberg ede I principi di matematica di Russell e il contributo geymonattiano al nuovo razionalismo e al neoilluminismo nell’ambito delle indagini specifiche condotte dal centro di studi metodologici di Torino. Frutto degli studi e delle ricerche, compiuti negli anni in cui insegnò in Sardegna sono i Saggi di filosofia razionalistica, pubblicati da Einaudi nel 1953, opera di rilevante importanza nello sviluppo del suo pensiero.

Possono infatti essere considerati una prima e significativa proposta delle posizioni poi elaborate in quest’ultima opera i tre saggi che Geymonat pubblicò negli  ‘Annali della facoltà di Lettere, Filosofia e Magistero della Università di Cagliari: il primo, dal titolo La nuova impostazione razionalistica della ricerca filosofica[4],è orientato a illustrare i limiti del razionalismo metafisico, scientista e critico e la pericolosità della fede nell’assolutezza della ragione, dalla quale essi scaturiscono. Questo razionalismo dogmatico, cui, come riconosce lo stesso Geymonat, erano improntate le sue prime giovanili pubblicazioni, non può resistere al confronto delle nuove concezioni scientifiche, in quanto era fondato su una logica di tipo assoluto e perché era costretto, in ultima analisi, a fare appello a principi intuitivi onde procurarsi un criterio indiscutibile della validità del sapere. A esso subentra sempre più un nuovo razionalismo, che emerge dall’analisi critica, operata dai migliori cultori delle singole scienze, delle basi delle loro costruzioni scientifiche. Questo razionalismo, che si è sviluppato in primo luogo nella matematica, per poi affacciarsi nella fisica e quindi nella biologia, è caratterizzato da estrema modestia ed estrema superbia. Questo tratto di modestia risiede nel fatto che non ci si propone di costruire sistemi razionali forniti di validità assoluta ed eterna, né di scoprire con la ragione verità trascendenti, in senso platonico più o meno esplicito. Ci si accontenta, invece, di determinare, di volta in volta, il preciso nesso sintattico che lega tra loro le proposizioni umane; il nesso operativo fra i concetti e il modo di verificarli; il nesso pratico fra le teorie e le loro applicazioni. La modestia, dunque, consiste nel non pretendere di ricondurre tutte le conoscenze umane a un unico sistema assoluto, ma nell’accontentarsi di analizzarle così come si sono storicamente formate, mettendo in luce precisa tutti i presupposti che stanno alla base di ciascuna delle nostre conoscenze determinate.

A questi tratti di modestia si accompagna una superbia estrema, che trae origine e si alimenta dall’attitudine a fare della ragione umana concreta e storicamente determinata la fonte stessa della razionalità. Questa superbia si manifesta nel sottolineare che è l’uomo concreto, storicamente dato, l’uomo finito di cui parlano gli esistenzialisti, che va considerato l’unico artefice della razionalità. È esso, e non qualcosa di superiore a lui, la fonte e l’origine del sapere. Dirigendo la propria indagine non sull’idea astratta di una scienza perfetta, ma sugli effettivi sistemi di conoscenze in nostro possesso, conclude Geymonat, si coglie l’unico senso non fantastico del termine «ragione».

Questo concetto è ribadito nel saggio Il problema degli universali[5], nella conclusione del quale si sottolinea che, in questa nuova prospettiva, “la fiducia nella ragione non esce diminuita, ma accresciuta. Anche se cadono le vecchie tecniche della ragione, e se possiamo prevedere che le stesse tecniche attuali verranno un giorno o l’altro sostituite da altre, l’appello alla ragione conserva immutato il suo valore. Valore che si manifesta non soltanto nel chiarire la natura dei fenomeni intorno a noi, ma nel chiarire la natura dei problemi da noi sollevati, delle difficoltà da noi incontrate, degli stessi errori compiuti”.

Il terzo saggio, dal titolo Neo-razionalismo e metodologia[6], attesta come iltriennio cagliaritano di Geymonat sia cruciale anche per ricostruire e comprendere uno degli aspetti di più spiccato interesse, e tuttora maggiormente controversi, della personalità filosofica di questo grande maestro della filosofia italiana e del suo complesso itinerario di ricerca: quello costituito dal mutamento di campo che lo condusse dall’originaria adesione all’empirismo logico, maturata durante il periodo della sua permanenza a Vienna e poi a lungo professata, alla successiva “conversione” al materialismo dialettico.

Quello che aveva maggiormente colpito Geymonat dei dibattiti che si svolgevano tra i membri del Circolo di Vienna era, come egli stesso ebbe modo di affermare nel 1979, soprattutto il fatto “che questi filosofi così poco accademici (e così diversi dai filosofi ‘ufficiali’ dell’Italia fascista!) affrontavano i problemi con lo stesso atteggiamento mentale con cui scienziati di differente opinione dibattono le questioni nei loro ambiti specifici. Se un ricercatore s’imbatte in un difficile rompicapo, poniamo in fisica dei solidi, in teoria dell’elasticità, in chimica organica, ecc. tenta vie diverse, confronta i risultati dei propri tentativi con quelli dei colleghi, coopera con essi al fine di pervenire a una soddisfacente soluzione. Il dibattito scientifico è spesso acceso quanto quello filosofico, ma nessuno dei partecipanti si prefigge di imporre la propria opinione agli altri, quanto di confrontare le proprie tesi con quelle altrui, in vista di uno scopo comune. Non si pretende di dire molto più di questo quando si afferma che la scienza è (o almeno, dev’essere) un’impresa pubblica e critica. Ma mi pare già abbastanza! E proprio in quest’ottica erano i neopositivisti: il loro modo di discutere era di per sé una garanzia di una filosofia diversa, di una riflessione al passo con la scienza, all’altezza, cioè, delle più rivoluzionarie conquiste scientifiche, fossero queste la relatività generale o la meccanica quantistica, la genetica o la teoria dei sistemi, e (perché no?) la psicologia della Gestalt o le tesi del comportamentismo, o, infine, le nuove concettualizzazioni della sociologia…”[7].

Proprio questa propensione per una filosofia in grado di misurarsi con gli sviluppi della ricerca scientifica e di tenere il passo di quest’ultima, senza soggezioni di sorta ma anche senza pretese di superiorità e velleità di prevaricazione, che era alla base del suo interesse per le posizioni di Schlick, di Carnap e di Neurath, lo aveva inizialmente portato a diffidare del materialismo dialettico. Il primo impatto con quest’ultimo, risalente al 1946, anno in cui ebbe modo di confrontarsi criticamente con Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin, non fu affatto positivo: “la mia posizione”, egli ricorda, “era allora di rifiuto netto della tesi leniniana che la fisica moderna avesse come suo esito ‘naturale’ il materialismo (dialettico), indubbiamente influenzato in questo dagli sviluppi che essa aveva avuto in Stalin e Zdanov. In nome del materialismo dialettico, i sovietici non soltanto avevano condannato la genetica moderna, ma anche la relatività einsteiniana, e in parte la meccanica quantistica, la cibernetica, la logica formale, le considerazioni astratte in matematica, e certi metodi di programmazione economica. Basta dare uno sguardo alla Storia della scienza di Bernal per ritrovarvi pedissequamente riprodotti, nel contesto del materialismo anglosassone, tutti i divieti imposti nell’URSS. Questo non significa naturalmente che ricerche molto importanti non si svolgessero in questi campi nell’URSS di quegli anni. Significa piuttosto che esse dovevano essere culturalmente ‘sterilizzate’…In definitiva, contro certi acritici apologeti di Lenin, mi sembrava inadeguata e scorretta la tesi che le trasformazioni di fondo nella fisica e nella chimica sul finire dell’Ottocento avrebbero ‘partorito’ il materialismo dialettico maturo! Un abbaglio di Lenin, che doveva costituire un ambiguo precedente per la concezione dell’impresa scientifica impostasi nel Diamat staliniano”[8].

Come si vede, un giudizio inequivocabile, di netta presa di distanza. Che cosa determinò, allora, il ribaltamento di questa posizione e l’avvicinamento alle tesi di Lenin, con contemporaneo distacco dall’impostazione neopositivistica? Per cominciare a capirlo è opportuno riferirsi proprio all’ultimo articolo negli Annali della facoltà di Lettere, Filosofia e Magistero della Università di Cagliari, nel quale cominciano a emergere in modo esplicito le ragioni del distacco dalle posizioni del “Circolo di Vienna” e del neo-positivismo. Questo indirizzo, sottolinea infatti l’autore, è certamente riuscito a compiere nell’attuale situazione scientifico-filosofica una funzione liberatrice di primaria importanza, avanzando esigenze critiche (di natura logico-sintattica) capaci di mettere a nudo con insolita chiarezza gli innumerevoli pregiudizi, equivoci, presupposti dogmatici che stanno alla base di molte celebri controversie della filosofia tradizionale e della vecchia scienza. Questa constatazione non deve tuttavia impedirci di evidenziare due suoi limiti ben precisi, derivanti in primo luogo dall’esigenza di avanzare altre non meno importanti istanze critiche, sfuggite ai viennesi, e, in secondo luogo, dalla necessità di riconoscere le sostanziali deficienze della filosofia generale entro cui i neopositivisti hanno tentato di inserire il loro approccio critico. Il primo compito è stato adempiuto dai più recenti indirizzi metodologici che hanno integrato l’analisi sintattica degli esponenti del “Circolo di Vienna” con una semantica e una pragmatica; il secondo compito rientra nel programma specifico dei neo-razionalisti, nel cui ambito Geymonat fa rientrare il proprio impegno filosofico.

Scoprire le deficienze del neo-positivismo, inteso come filosofia generale, non può e non deve, tuttavia, significare negare a priori la funzione liberatrice delle istanze critiche da cui esso era sorto, né può comportare un ritorno a quelle ipotesi metafisiche che la critica dei viennesi aveva dimostrato equivoche e dogmatiche.  Si può abbandonare una filosofia, riconosciuta insufficiente e difettosa, non per recuperare e riabilitare posizioni che già essa aveva dimostrato insostenibili, ma per andare in cerca di soluzioni nuove e più aperte, che comprendano e valorizzino i risultati della filosofia in esame, senza cadere nei suoi medesimi difetti. Di quest’ultimo tipo, sottolinea Geymonat, vuole appunto essere il programma filosofico del neo-razionalismo.

La novità da difendere e valorizzare in tal senso, più che la filosofia della scienza, genericamente assunta, è la metodologia, intesa come ricerca di nuove tecniche per analizzare le teorie scientifiche: per esaminarle e approfondirle concretamente, nel loro sviluppo storico, nella loro struttura logico-sintattica, nel loro significato operativo.  Il rinnovamento operato dalla scoperta di queste nuove tecniche, ignote fino a pochi decenni fa, ha un’importanza decisiva per tutta la filosofia, oltre che per la stessa ricerca scientifica, in quanto porta all’eliminazione di ogni residuo di trascendenza nell’una e nell’altra.

Alla base del programma del neo-razionalismo è quella che Geymonat chiama la “illimitata apertura della consapevolezza razionale”, consistente nella piena consapevolezza del fatto che le tecniche razionali non solo possano, ma debbano costantemente venir corrette, perfezionate, sostituite, in quanto la loro razionalità non significa assolutezza. Ogni assolutezza equivarrebbe, anzi, a negazione della razionalità, perché significherebbe appello a qualcosa di superiore a noi, di trascendente, di non umano, a qualcosa da cui si è dominati, e che non si è in grado di dominare e controllare.

Come non è possibile predeterminare il numero e il tipo di tecniche adoperate, insiste Geymonat, così non è possibile tracciare a priori i confini di applicazione di tali tecniche. Una volta determinata con esattezza la loro struttura integralmente umana, non esiste barriera che risulti per principio da esse insormontabile. Soltanto il loro successo o insuccesso ci dirà a posteriori se esse erano o no applicabili a un dato tipo di problemi.

Esistono, sì, delle tecniche che il neo-illuminista rifiuta di accogliere nella propria filosofia: queste sono però le tecniche strutturate in forma non-razionale, in forma tale, cioè, da sfuggire per principio a qualsiasi controllo umano. Al di fuori di esse, il neo-illuminista è disposto a esaminare con seria attenzione ogni altra forma di tecnica che sorga o si affermi nella storia dell’indagine umana, come è disposto a tentare, nei campi più diversi, l’applicazione di qualsiasi tecnica razionale, senza preconcetti di sorta. Egli non riconosce l’esistenza di problemi che sfuggano per loro natura all’indagine della ragione. La razionalità non è per lui un concetto astratto, senza nessi con la realtà umana: è qualcosa che si estende fin dove si estendono le tecniche razionali, e si amplia all’infinito con il loro ampliarsi. In altri termini: tutto ciò che può venire aggredito da una tecnica razionale, diventa per ciò stesso razionale, e cioè costruibile e trasformabile a opera dell’uomo.

Questa esigenza di ampliamento progressivo, senza confini predefiniti e senza preconcetti o inutili barriere, dell’idea di razionalità costituisce il motivo conduttore dell’intera prospettiva filosofica di Geymonat, il tratto distintivo che le conferisce continuità e coerenza. Lo dimostrano due suoi interventi in Sardegna, in anni successivi al suo trasferimento a Pavia e poi a Milano, come titolare di una cattedra di filosofia della scienza, una novità assoluta nel panorama accademico italiano di allora. Nel primo, dal titolo La matematica nella cultura italiana, preparato per il Convegno «La storia delle Matematiche in Italia», svoltosi a Cagliari dal 29 settembre al 1° ottobre 1982[9] egli pone e affronta con chiarezza quella che considera una questione cruciale, enunciata nei termini seguenti: “Dovremo o non dovremo negare indiscriminatamente la qualificazione di «razionali» a tutte le indagini esprimibili con discorsi di tipo diversi da quelli matematici?

Personalmente sono del parere che negare tale qualificazione sarebbe pericoloso, in primo luogo perché comporterebbe una visione chiusa e dogmatica di quello che abbiamo chiamato «il deposito» dei linguaggi matematici rigorosi, in secondo luogo perché favorirebbe un’interpretazione della realtà come dominata dall’irrazionale. Occorre invece, a mio giudizio, allargare il significato della nozione di razionalità, in modo da includervi anche taluni atti che generalmente sono considerati ai margini di essa.

Sopra tutto occorrerà includervi i prodotti della tecnica, che sono spesso il frutto di più fattori, tra i quali abbiamo sì l’elaborazione scientifica e in particolare matematica, ma abbiamo pure degli atti che possiamo chiamare «intuitivi» per analogia a ciò che parecchi autori chiamano «intuizione matematica». La tecnica e la matematica sono oggi così collegate fra loro, in particolare a causa dell’uso sempre più ampio dei così detti modelli matematici, che è divenuto pressoché impossibile tracciare una precisa linea di demarcazione fra la ricerca matematica vera e propria e la ricerca logica epistemologica.

Per questo nei miei ultimi lavori ho avanzato la proposta di prendere in considerazione quello cui ho dato il nome di «patrimonio scientifico-tecnico», concetto che mi è stato suggerito dalla lettura delle opere di Duhem, il quale parla di «capitale» (di idee, di risultati, di metodi) che viene via via accresciuto nel suo complesso (anche se non sempre nelle sue singole parti) dal laborioso sviluppo della civiltà umana. Se ammettiamo che le trasformazioni di questo capitale costituiscono il vero oggetto della storia, dobbiamo ricavarne che anche la storia della matematica va inquadrata nella storia del patrimonio scientifico-tecnico. Patrimonio che non è qualcosa di rigido, ma è una unità dialettica, in cui tutto influisce su tutto e tutto è influenzato da tutto, ovvero –come scrive Quine- nessuna parte è priva di connessioni con le altre; unità dialettica in cui i successi e gli insuccessi di una ricerca (teorica o pratica) si ripercuotono direttamente o indirettamente su tutte le altre ricerche e servono di stimolo a potenziare il nostro dominio della realtà e a ideare sempre nuove vie per tentare di conoscerla ognora più a fondo”[10].

Il secondo intervento è di otto anni più tardi, ed è l’introduzione al Convegno “Moderno e postmoderno nella filosofia italiana”[11]. In esso Geymonat rileva che “se la scienza postmoderna è soprattutto interessata dalla complessità, ciò comporta che l’epistemologia dovrà essere a sua volta interessata dalla complessità delle possibili teorizzazioni scientifiche che nascono nei vari campi del sapere: ‘Dalla filosofia della scienza  alle filosofie delle singole scienze’: questa potrebbe essere la formula più opportuna per indicare il mutamento di prospettiva segnato dal patrimonio conoscitivo contemporaneo fatta proprio dal postmoderno.

Il mondo odierno è profondamente diverso da quello di ieri, e ciò riguarda non soltanto le scienze matematiche e fisiche ma anche quelle sociali. Noi vediamo che le nostre società hanno una dinamica basata sulle contraddizioni e il loro superamento: trattasi di dinamica che non è più regolabile da quelle leggi universali che erano il grande vanto dell’epoca precedente, dell’epoca moderna. Oggi ci troviamo di fronte a una realtà nuova che esige una capacità di cogliere il particolare, la varianza dei particolari; soltanto analizzando questa differenza possiamo capire il carattere dell’epoca nella quale viviamo. […] Noi guardiamo il mondo in modo ben diverso da quello – importantissimo – che hanno avuto Galileo, Newton, ecc., dobbiamo soprattutto comprendere che le leggi possono valere per un singolo gruppo di fenomeni ma non per tutti i fenomeni. Per questo motivo il postmoderno – che afferma il valore delle leggi ‘locali’- è importante; esso è legato alle categorie della contingenza, della probabilità; e il calcolo che oggi si applica è appunto quello della probabilità. Usando questi nuovi calcoli, guardando le cose con quest’occhio nuovo, saremo in grado di agire nel mondo naturale e in quello umano nel quale viviamo. Insomma, l’importante è che sappiamo guardare il futuro, proponendoci di trasformare in profondità il mondo”.

Il complesso di questi interventi, caratterizzati, come si può ben vedere, da un nucleo che si mantiene costante nel tempo, consistente in quella che lo stesso Geymonat chiama l’esigenza  di “illimitata apertura della consapevolezza razionale”, ci illustra e spiega le ragioni del duplice atteggiamento nei confronti del neopositivismo, caratterizzato, per un verso, dal grande apprezzamento che egli continuò sempre a nutrire per l’insostituibile apporto fornito dall’empirismo logico all’analisi della struttura interna delle teorie scientifiche e delle procedure di controllo alle quali esse debbono venire sottoposte, e, per l’altro,  dalla precisa consapevolezza dei limiti di questo approccio. Questi limiti sono ben sintetizzati nell’intervista su scienza e politica, cui abbiamo avuto occasione di riferirci anche in precedenza, nella quale egli diceva tra l’altro, in modo secco: ”non ritengo che la costruzione di rigorose teorie assiomatico-formali esaurisca certo la pratica scientifica”[12].

È vero che. all’interno della prospettiva dei “viennesi”, ad opera soprattutto del Carnap della Der logische Aufbau der Welt ( La costruzione logica del mondo), era venuta via via emergendo, per consolidarsi sempre più, un’impostazione alternativa a quella linguistica, basata sul riferimento agli aspetti strutturali delle teorie, attraverso l’assimilazione di una teoria scientifica sia assimilabile a una carta geografica e l’idea che il tipo di descrizione da essa fornito della realtà cui si riferisce sia analogo a quello che una carta geografica ci dà del territorio che intende rappresentare. Anche in questo caso, però, ci troviamo di fronte, a giudizio di Geymonat, a un altro limite assai evidente, che in questo caso consiste in una visione che porta ad accantonare ogni interesse per la questione della verità delle teorie medesime e a considerare queste ultime come semplici strumenti per risolvere problemi, la cui validità va pertanto misurata in termini di efficacia nel conseguimento di questo obiettivo. Se infatti è certamente vero che la conoscenza scientifica e gli apporti di cui essa si nutre “sono strumenti per risolvere problemi”, altrettanto vero è che essi “non sono semplici ‘strumenti’. Dunque il convenzionalismo va concettualmente distinto dallo strumentalismo. Il riconoscimento delle componenti convenzionali delle teorie non implica affatto una riduzione di queste ultime a strumenti di cui andrebbero valutate le sole conseguenze pratiche”[13].

La questione centrale della quale occorre venire in qualche modo a capo è pertanto quella di capire come riuscire a conciliare il convenzionalismo, al quale si deve una delle conquiste fondamentali della cultura del ‘900, cioè l’aver respinto l’esistenza di verità assolute, e, di conseguenza, l’aver capito che i princìpi, di qualsiasi genere essi siano, non hanno valore assoluto, ma relativo a certi specifici campi di applicazione, e la difesa nonostante ciò dell’idea, che Geymonat considera irrinunciabile, che quella scientifica sia conoscenza di una realtà che esiste indipendentemente dall’atto conoscitivo stesso, che essa cioè non viene costituita dallo stesso processo del conoscere. Merito del convenzionalismo è quindi l’aver compreso che l’unico fondamento della conoscenza è lo sviluppo della conoscenza stessa, per cui conoscenza e accrescimento della conoscenza sono nozioni inseparabili: ma a questo indiscutibile contributo va affiancata la strenua riaffermazione del principio cardine del realismo, e cioè l’idea che le teorie debbano comunque fare i conti i vincoli imposti dall’esigenza di misurarsi con una realtà tutt’altro che docile e pronta a “vendicarsi” di chi pensa di poterne ignorare i segnali e le informazioni.

Nel 1960, in Filosofia e filosofia della scienza, Geymonat afferma con forza la necessità di andare al di là del convenzionalismo scientifico, pur riconoscendone i meriti, ponendo al centro dell’attenzione un sistematico esame delle connessioni fra teoria e teoria. In questo modo, a suo parere, “sarà facile comprendere che il patrimonio teorico delle scienze, per quanto legato da strettissimi nessi con il patrimonio tecnico-sperimentale, possiede una propria dialettica interna, inconfondibile con la dialettica del puro e semplice agire”[14]. In virtù di questa constatazione, che emerge in modo chiaro da un’approfondita indagine intorno alla scienza, risulta necessario “guardarsi sia dall’identificare il conoscere con la sola attività teorica, sia dall’identificarlo con la sola attività pratica. Tali identificazioni non farebbero altro che svisare la natura del conoscere –o per lo meno del conoscere scientifico- e farebbero sorgere, a proposito di esso, dei problemi mal posti, unicamente atti a confondere le idee”[15]. In conseguenza di ciò il filosofo che voglia adeguare la sua concezione del conoscere ai risultati che scaturiscono dall’analisi della dinamica delle teorie scientifiche “dovrà tenere rigorosamente conto di tutta intera l’attività del conoscere, non di uno solo dei due fattori che la costituiscono. Soprattutto dovrà tener conto del fatto che la conoscenza scientifica si è sviluppata realizzando un effettivo progresso (legato a entrambi i fattori che la costituiscono) e che questo progresso differenzia in modo inequivocabile la ricerca scientifica dalle pure e semplice «costruire convenzioni» “[16]

La prima indicazione che possiamo ricavare dall’esigenza di far convergere gli aspetti positivi del convenzionalismo e quelle, irrinunciabili, del realismo è dunque che “quel che è importante non è una analisi statica dell’atto conoscitivo, alla maniera dei filosofi tradizionali, ma una analisi dinamica del processo storico di accrescimento della conoscenza, via approssimazioni successive”[17].

È proprio con riferimento a questo specifico punto che l’interesse di Geymonat comincia a staccarsi dal neopositivismo, la cui impostazione di fondo continua, a suo giudizio, a essere orientata verso quest’analisi statica dell’atto conoscitivo, per volgersi in direzione della visione dinamica riscontrabile nella proposta del materialismo dialettico, e in particolare di Lenin, con l’idea di “riflesso attivo”, da lui proposta in Materialismo ed empiriocriticismo. Con questa nozione egli tende a concentrare l’attenzione sul meccanismo attraverso il quale un fatto extralinguistico si traduce in un contenuto linguisticamente determinato, trasformando il mondo “aperto”, “inesauribile” della realtà nel mondo “chiuso” dei nomi e delle strutture concettuali. Questo è il senso del famoso richiamo di Lenin all’inesauribilità della natura e alla relatività dell’”essenza” delle cose o della “sostanza”, le quali esprimono soltanto il grado di profondità della conoscenza che l’uomo ha degli oggetti. Questa idea è ripresa e approfondita nei Filosofskie tetradi – Quaderni filosofici -, dove egli  osserva che “la conoscenza è il rispecchiamento della natura da parte dell’uomo. Ma questo non è un rispecchiamento semplice, immediato, totale, è invece il processo di una serie di astrazioni, il processo della formulazione, della formazione dei concetti, delle leggi, ecc., i quali concetti, leggi, ecc. (pensiero, scienza= “idea logica”) abbracciano anche in modo condizionato e approssimativo le leggi universali della natura che è in eterno movimento e sviluppo. Qui si danno realmente, oggettivamente tre termini: 1) la natura; 2) la conoscenza umana= cervello dell’uomo (come prodotto più alto della stessa natura); 3) la forma di rispecchiamento della natura nella conoscenza dell’uomo, questa forma sono anche i concetti, le leggi, le categorie, ecc. L’uomo non può afferrare=rispecchiare=riflettere la natura intera, completamente, nella sua ‘totalità immediata’, ma può solo avvicinarsi eternamente a questo, creando astrazioni, concetti, leggi, un’immagine scientifica del mondo, ecc. ecc.”[18].

Questa proposta di Lenin interessa in modo particolare Geymonat per il richiamo, che se ne può trarre, sulla scia di Helmholtz, al fatto che vi possano essere più modelli, anche assai diversi tra loro, dello stesso fenomeno, e che di conseguenza non sia possibile ipotizzare un effettivo rapporto di somiglianza stretta tra il modello e la e la realtà, alla quale esso si riferisce; e per la “lettura” che Lenin stesso fornisce di questo stesso fatto, incardinata sull’idea che, di per sé, esso ci autorizza soltanto a concludere che il modello medesimo non possa essere una copia fedele e una rappresentazione esaustiva della realtà di riferimento, ma non ci impedisce in alcun modo di impostare, attraverso la nozione di “riflesso attivo”, un rapporto più complesso e articolato tra la stessa realtà, i modelli e le teorie.

Per meglio comprendere la relazione tra questi ultimi due termini e reimpostare in chiave più aggiornata il senso del confronto tra Plechanov e Lenin occorre fare un deciso passo avanti rispetto al momento in cui quest’ultimo si svolse e riferirci, in prima istanza, alla definizione di “modello di una teoria qualunque T”, fornita nel 1935 da A. Tarski[19], secondo la quale esso è “una possibile realizzazione in cui tutte le formule valide della teoria stessa sono soddisfatte”.  Se dunque la teoria è un insieme di formule di un qualche linguaggio formalizzato e se l’interpretazione è la funzione che, assegnando un significato a ciascuna espressione ben formata del linguaggio medesimo, determina il valore di verità di ciascuna formula della teoria, il modello è ogni interpretazione che rende vera tutte le formule della teoria, cioè può essere intuitivamente considerato come una realizzazione della teoria, come una struttura astratta, e quindi come un’entità non linguistica, in cui la teoria è soddisfatta, vale a dire che si comporta conformemente a quest’ultima. Il risultato che se ne ricava è la possibilità di differenziare la nozione di modello da quella di teoria e di spostare l’attenzione da quest’ultima al primo, assumendolo come tema centrale di analisi. L’immediata conseguenza di questo spostamento è quella di sottolineare che i problemi più rilevanti della filosofia della scienza non riguardano entità linguistiche, e che dunque, contrariamente all’impostazione originaria dell’empirismo logico, è alla dimensione non linguistica della conoscenza scientifica che dobbiamo cominciare a guardare con sempre maggiore interesse.

Ciò, ovviamente, non significa in alcun modo sottovalutare o addirittura negare l’importanza dell’analisi approfondita del linguaggio scientifico –anzi, per essere più corretti, dei linguaggi scientifici, sulla quale anzi Geymonat insiste sempre con molta determinazione. La questione è piuttosto quella di inserire in questa analisi la dimensione storica: “Questa inserzione ci conduce fra l’altro […] a cogliere in concreto la delicatissima frattura col linguaggio comune che caratterizza la nascita di ogni singolo linguaggio specializzato, nonché il prezioso ausilio (non privo però di pericoli) che l’esistenza già assodata di un linguaggio specializzato può fornire al nascere di un altro. Pur non potendomi mantenere più a lungo sull’argomento, desidero tuttavia sottolineare ancora una volta l’indiscutibile importanza –ai fini di un’analisi moderna dei linguaggi scientifici, di un approfondito esame della dialettica di tali linguaggi: dialettica che li porta non solo a separarsi fra loro e da quello comune, ma anche a svilupparsi in forme sempre nuove e più ricche, in rapporto sia con le esigenze interne alle singole scienze, sia con quelle esterne (cioè con le esigenze dell’uomo che si serve di esse, della società in cui egli vive e così via). Oggi si suol dare – e ben a ragione- da molti metodologi un notevolissimo rilievo ai complicati rapporti fra linguaggio comune e linguaggio scientifico; occorre però dare un rilievo altrettanto grande ai rapporti non meno complessi tra i vari livelli di ogni linguaggio scientifico; ciò avrà tra l’altro il merito di non lasciarci credere che il livello attuale del linguaggio scientifico rappresenti un assoluto, un optimum indispensabile, ossia rappresenti la scienza, intesa come forma perfetta di conoscenza”[20].

Una volta poste queste basi e fatta queste premesse si può passare ad interrogarsi sulla natura del rapporto tra le strutture empiriche del mondo (ossia le strutture che sono qui e ora, presenti e osservabili), la teoria che se ne occupa e il modello (o i modelli) di quest’ultima.

Geymonat ritiene che per rispondere in modo corretto a questa domanda sia necessario, prima di tutto, staccarsi dalla visione sintattica e astratta delle teorie scientifiche, proposta dal neopositivismo, e avvicinarsi alla pratica concreta degli scienziati, al processo che essi seguono nell’elaborazione dei modelli e all’uso effettivo che essi fanno di questi ultimi. Il senso di questo riferimento alla prassi va tuttavia chiarito e approfondito, per non cadere in equivoci e fraintendimenti. Geymonat è molto esplicito su questo punto. “Il senso del criterio della prassi consiste nel fatto che le teorie non vanno valutate alla luce di standard metastorici, ma nell’ambito della prassi totale da cui sono generate e che esse generano. Naturalmente, si tratta di un criterio variabile storicamente, come lo è la prassi umana. In questa prassi totale rientra di pieno diritto la costruzione delle teorie. Ma quel che è più importante, la prassi totale non costituisce per me un criterio di verità, e neanche di accettabilità, per le teorie. Può ben darsi che valga la pena di sviluppare – per un certo tratto di tempo almeno – una teoria che momentaneamente non fa nessuna differenza né rispetto alla pratica produttiva, né a quella sperimentale. La prassi totale costituisce soltanto un potente sistema di sollecitazioni, di suggerimenti alla revisione dei nostri quadri teorici. Per converso, anche teorie coerenti, semplici, fornite di una vasta gamma di applicazioni riuscite, potranno essere rimpiazzate – o meglio approfondite – da nuove teorie che meglio rispondono a queste sollecitazioni, meglio sviluppano questi suggerimenti. E tra questi suggerimenti e sollecitazioni sono importanti soprattutto quelli provenienti dalla tecnica, tradizionalmente esclusi dai filosofi nella loro immagine della così detta scienza pura”[21].

Ma come si inquadra il criterio della “prassi totale”, così definito, nell’ambito di una impostazione rigorosamente realistica? Se assumiamo, risponde Geymonat, che non vale l’inferenza “relatività, dunque non-oggettività”, come ci viene appunto suggerito dalle riflessioni che Lenin oppone alle argomentazioni di Plechanov e di Bogdanov, possiamo convenire che “il carattere oggettivo della conoscenza non ha nulla a che vedere con la sua assolutezza, ma piuttosto con il successo delle pratiche che su di essa si basano. È a questo livello che faccio appello al criterio della prassi: esso mira a caratterizzare la conoscenza scientifica come quella che produce pratiche riuscite, e riuscite proprio perché tale conoscenza costituisce una buona approssimazione alla verità. Al contrario dunque di quanto hanno sostenuto alcuni critici, non c’è la benché minima incompatibilità tra il mio uso del criterio della prassi e la forma di realismo che io difendo. Anzi, questo tipo di uso può essere fatto solo sullo sfondo di una concezione realistica. In breve: le pratiche basate sulla conoscenza scientifica riescono perché essa è oggettiva, perché costituisce cioè una buona approssimazione a quella realtà che esiste indipendentemente da noi”[22].

Se proviamo ad applicare queste considerazioni al problema del rapporto tra realtà, teoria e modello, dal quale eravamo partiti, ciò che possiamo ricavarne è che i modelli sono interpretazioni approssimate, e dunque parziali delle teorie, nel senso che non possono in alcun modo ambire ad essere una copia fedele (o un riflesso, inteso nel senso tradizionale) né delle teorie medesime, né della realtà. E tuttavia debbono avere un legame non convenzionale con le une e con l’altra, cioè stabilire con l’ambito della natura al quale si riferiscono una relazione adeguata. In che cosa consiste questa adeguatezza dei modelli? Una delle risposte più ricorrenti a questa domanda è che, per riconoscere ai modelli questa caratteristica, sia necessario (ma anche sufficiente) stabilire fra un modello qualunque e il sistema reale cui si riferisce una relazione di tipo isomorfico. Alfiere di questa concezione è, ad esempio Suppes, per il quale la nozione di isomorfismo, oltre a caratterizzare il rapporto tra il modello e il dominio di realtà di riferimento, vale anche a istituire paragoni e confronti su basi formali fra i diversi modelli di una teoria.

Geymonat non ritiene soddisfacente questa risposta, che a suo parere elude la questione centrale dalla quale non possiamo prescindere. Se ad esempio come realtà da analizzare e descrivere assumiamo (come è del tutto lecito fare, ovviamente) la dinamica delle teorie scientifiche e cerchiamo di fornirne dei modelli che ne evidenzino la razionalità, non possiamo comunque evitare di porci la seguente domanda: “questo carattere di razionalità del mutamento scientifico, che lo rende appunto un processo di accrescimento della conoscenza, è una conseguenza dei modelli che usiamo per ricostruire la storia, oppure rivela una trama razionale interna a questa stessa storia? O ancora: la natura ha una sua razionalità interna che veniamo scoprendo nel corso di essa, oppure tale razionalità le è imposta dalle nostre concettualizzazioni? Va riconosciuto che le apparenze spingono in entrambi i casi verso la prima alternativa. Alla molteplicità di modelli alternativi tutti parzialmente adeguati per interpretare il mutamento scientifico, corrisponde una molteplicità di modelli tutti parzialmente adeguati per rappresentare la natura. L’impressionante proliferazione di modelli matematici, di possibilità alternative di matematizzare la natura dal 1700 in avanti, la ricorrenza di dicotomie come discreto/continuo, forze/campi, particelle/onde, sembrano scoraggiare ogni tentativo di interpretazione realistica, e lasciarci esausti come dopo lo spettacolo di una lanterna magica. La risposta che io ho tentato di dare è questa: per superare queste apparenze e cogliere dietro di esse una razionalità nella storia o, più in generale, nella natura, bisogna ricorrere a un’estensione di questa nozione e passare da una ragione puramente logico-formale a una ragione dialettica. È solo nel senso di questa nozione estesa che siamo in grado di scoprire una trama razionale nel mutamento scientifico. Naturalmente questa proposta avrebbe dovuto essere illustrata con molto maggiore dettaglio – su casi storici concreti – di quanto io abbia fatto in Scienza e realismo[23].

Che cosa significa questa risposta? Alla luce della posizione di Lenin, alla quale ci siamo in precedenza riferiti, essa indica che possiamo e dobbiamo assumere la nozione di “riflesso attivo” come caratterizzante il nesso tra modelli e realtà. Il riflesso attivo, pur essendo tutt’altra cosa da una “copia fedele”, non è comunque una relazione logica e astratta, ascrivibile a una “ragione puramente logico-formale”, bensì è, necessariamente, una relazione di somiglianza, da declinarsi tuttavia secondo diversi livelli e per gradi differenti. Si tratta cioè di una relazione sostenuta da ipotesi teoriche della forma: “il modello M è simile al sistema S in modo approssimato e mai esaustivo, cioè per certi aspetti e con certi gradi”.

Diventa dunque cruciale, ai fini della soluzione del complesso nodo problematico che al centro della riflessione epistemologica di Geymonat, la categoria dell’approfondimento, la quale “rappresenta senza dubbio una fase del processo conoscitivo, ma una fase caratteristicamente dinamica, perché la sua essenza consiste nel passaggio da un livello, che in un certo senso viene negato per la sua limitatezza, a un altro livello che si presenta come superiore al precedente, in quanto lo supera per capacità esplicativa, cioè per capacità di chiarire ciò che antecedentemente era lasciato nell’oscurità”[24]. Il riferimento a questa categoria evidenzia ulteriormente i limiti e le lacune del convenzionalismo: “non ha infatti alcun senso affermare che una teoria costituisca l’approfondimento di un’altra, se ammettiamo che esse siano il frutto di mere convenzioni”[25].

Al convenzionalismo deve dunque subentrare un approccio incardinato solidamente sulla convinzione che “la conoscenza vera (ma di verità relativa) è una conoscenza che non adegua bensì approssima la realtà. Dove nel verbo ‘approssimare’ è insito il più o il meno che erano invece esclusi dal verbo adeguare. Ma non basta. Una volta preso atto del carattere intrinsecamente dinamico della verità, sarà gioco forza rinunciare al carattere statico tradizionalmente attribuito alla realtà stessa. Se infatti la realtà fosse qualcosa di statico, diventerebbe impossibile negare questa medesima staticità ai risultati ottenuti dai processi conoscitivi, una volta che si tratti di risultati autenticamente veri, anche se pensassimo questi risultati veri come un semplice limite a cui tendono i risultati effettivamente conseguiti dalla scienza. (va notato che il verbo ‘approssimare’, il quale interviene nella nuova concezione della verità, esclude per principio l’idea stessa di un limite assoluto, il quale risulterebbe privo per definizione di dimensione storica”[26].

È proprio in questo senso che il metodo dialettico può fornirci utili indicazioni per lo studio dello sviluppo delle teorie scientifiche: “se riusciamo a stabilire che due teorie T e T’ sono legate fra loro da un rapporto dialettico, allora dovremmo ammettere che esiste fra esse un’effettiva rottura, ma esiste nel contempo un’effettiva continuità. Di conseguenza sarà facile comprendere che dalla stessa negazione della teoria T emerge uno spunto che ci conduce alla creazione della teoria T’. Un tipico caso del genere si presenta nei rapporti fra la famosa memoria di Bohr, Kramers e Slater del 1924 dove venne formulata l’ipotesi degli ‘oscillatori virtuali’ e la memoria di Heisenberg del 1925 in cui è formulata la meccanica delle matrici. Com’è noto, questa ultima costituisce una precisa rottura con la precedente, eppure prende in un certo senso lo spunto proprio da essa”[27]

Alla luce di questi passi e di quanto si è detto in precedenza la posizione di Geymonat assume il valore e il significato di un tentativo originale e coraggioso di proporre modelli dinamici realistici della scoperta scientifica, rigettando, come egli stesso aveva precisato e sottolineato nel suo intervento al Convegno di Cagliari del 1982 su «La storia delle Matematiche in Italia», gli approcci esclusivamente formali in favore di metodi in grado di rendere conto di come funziona effettivamente il ragionamento umano in generale, e quello scientifico in particolare. È in questo senso, a mio parere, che va interpretata la sua definizione di dialettica come “generatore di modelli, ma senza la pretesa che essi abbiano tutti una qualche caratteristica in comune e dunque che il mutamento scientifico possa essere imbrigliato da un qualche schema a priori. Potremmo in tal caso cedere di nuovo alla tentazione di supporre che è la mente a imporre il suo ordine alla storia. I modelli vanno costruiti localmente allo scopo di scoprire la razionalità di quel particolare caso di mutamento scientifico esaminato”[28].

Riflettendo, in Lineamenti di filosofia della scienza, del 1985, sul senso complessivo della sua proposta epistemologica Geymonat osserva come essa si presti all’osservazione di essere il punto d’approdo “di una interpretazione storicistica della scienza. Accettiamo quest’osservazione senza scorgervi una critica. È invero un fatto innegabile che noi viviamo e operiamo nella storia, e che pertanto anche le nostre costruzioni scientifiche si costituiscono e si sviluppano nella storia. E lo stesso può ripetersi per la nostra concezione generale del mondo nonché per il concetto di natura e di razionalità. L’importante è rendersi conto che esse non si reggono soltanto sulla storia (per esempio sulla graduale elaborazione dei postulati e sulla graduale registrazione dei fatti empirici con strumenti via via più sensibili e precisi), ma che posseggono anche una base obiettiva pur senza costituire verità assolute. Abbiamo detto che le scienze e le tecniche recano l’impronta della fase storica in cui vennero costruite, e che pertanto non possono venire comprese al di fuori della storia; ma hanno cionondimeno un significato e una portata oggettiva”[29].

Nell’intervista fattagli da F. Minazzi in occasione del suo ottantesimo compleanno[30] il consuntivo che egli fa della sua opera assume toni amari. Geymonat dichiara infatti di considerarsi uno “sconfitto”, pur aggiungendo, immediatamente dopo, di essere, tuttavia, “uno sconfitto che lotta sempre”. E spiega perché: “il mio bilancio nell’ambito socio-politico è un fallimento perché malgrado i miei sinceri sforzi l’Italia è rimasta in uno stadio non molto dissimile da quello in cui si trovava prima del fascismo”[31].

Questa impressione negativa di fallimento complessivo non era neppure mitigata da quanto successo in ambito culturale: “Penso che la filosofia italiana sia ancora dominata dal pensiero cattolico e dal pensiero crociano-gentiliano. In altri termini sono convinto che in Italia, più che in altri paesi, è ancora forte la tradizione di un pensiero idealista e soggettivista. Nel nostro paese lo stesso marxismo in ultima analisi è stato una moda che non ha saputo affrontare i problemi di fondo della cultura. Non credo, infine, che l’Italia sia in grado di cambiare sul serio la propria cultura in breve tempo”[32].

In realtà l’eredità culturale complessiva di Ludovico Geymonat è tuttora molto più radicata e presente di quanto questo pessimistico bilancio della sua opera, da lui stesso tracciato, possa far pensare. Nonostante il diradarsi dei riferimenti al suo pensiero e ai suoi scritti, infatti, la presenza, nell’università italiana di oggi, di una ormai consolidata tradizione di ricerche nei campi dell’epistemologia, della filosofia delle differenti scienze della natura, in particolare della fisica e della biologia, della logica, della filosofia della matematica ecc., che si sono affermate anche in campo internazionale, è il segno tangibile e inconfutabile della attualità e della persistenza della sua lezione.


[1] Ludovico Geymonat. Mezzo secolo di un filosofo. Intervista autobiografica a cura di Mario Quaranta, ‘Iride’, n.4-5, gennaio-dicembre 1990, pp. 105-153,

[2] L. Geymonat, Paradossi e rivoluzioni. Intervista su scienza e politica a cura di Giulio Giorello e Marco Mondadori, Il Saggiatore, Milano, 1979, p. 55.

[3] L. Geymonat, Storia e filosofia dell’Analisi infinitesimale, Levrotto e Bella, Torino,1947. Ripubblicato da Bollati Boringhieri, Torino, 20098.

[4] L. Geymonat, La nuova impostazione razionalistica della ricerca filosofica, ‘Annali della facoltà di Lettere, Filosofia e Magistero della Università di Cagliari’, vol. XVIII, 1951, Tip. G. Gallizzi, Sassari, pp. 135-149.

[5] L. Geymonat, Il problema degli universali, ‘Annali della facoltà di Lettere, filosofia e Magistero della Università di Cagliari’, vol. XIX, parte II, 1952, Tip. G. Gallizzi, Sassari, pp. 89-103.

[6] L. Geymonat, Neo-razionalismo e metodologia, ‘Annali della facoltà di Lettere, filosofia e Magistero della Università di Cagliari’, vol. XIX, Parte II, 1952, Tip. G. Gallizzi, Sassari, pp. 104-117.

[7] L. Geymonat, Paradossi  e rivoluzioni, cit., p. 44.

[8] Ivi, pp. 66-67.

[9] L. Geymonat, La matematica nella cultura italiana , in ‘Atti del Convegno «La storia delle Matematiche in Italia», a cura di O. Montaldo e L. Grugnetti, Università di Cagliari, Istituti di Matematica delle Facoltà di Scienze e Ingegneria, 1984, pp. 13-22.

[10] Ivi, pp. 21-22.

[11] L. Geymonat, Introduzione al Convegno “Moderno e postmoderno nella filosofia italiana, oggi”,  Calagonone- Dorgali-Nuoro, 7-9 ottobre 1990, in Atti del Convegno omonimo, a cura di U. Collu, Consorzio per la Pubblica Lettura «Sebastiano Satta», Nuoro, giugno 1992, pp. 35-36.

[12] L. Geymonat, Paradossi e rivoluzioni, cit., p. 74.

[13] Ivi, p. 73.

[14] L. Geymonat, Filosofia e filosofia della scienza, Feltrinelli, Milano, 1960, p. 149.

[15] Ivi, pp. 151-152.

[16] Ivi, p- 152.

[17] L. Geymonat, Paradossi e rivoluzioni, cit.p. 117.

[18] Lenin, Opere scelte in sei volumi, vol. III, Roma- Mosca, 1973, pp. 446-47.

[19] A. Tarski, Undecidable theories, North-Holland Publishing Co., Amsterdam, 1935.

[20] L. Geymonat, Filosofia e filosofia della scienza, cit., p. 175.

[21] L. Geymonat, Paradossi e rivoluzioni, cit., pp. 123-124.

[22] Ivi, p. 120.

[23] Ivi, p. 121 (il corsivo è mio).

[24] L. Geymonat, Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 71.

[25] Ivi, p. 73.

[26] Ivi, p. 75.

[27] Ivi, pp. 90-91.

[28] L. Geymonat, Paradossi e rivoluzioni, cit., p. 122.

[29] L. Geymonat, Lineamenti di filosofia della scienza, Mondadori, Milano, 1985,p. 128

[30]L. Geymonat,  Libertà come lotta, il L. Geymonat e F. Minazzi, Dialoghi sulla pace e la libertà, Cuen, Napoli, 1992. Intervista fattagli da F. Minazzi in occasione del suo ottantesimo compleanno pp. 163-170 (originariamente pubblicaya, con il titolo Libertà come lotta, sul supplemento “attualità culturale”, n. 116 del “Corriere del Ticino”, anno XCVII, sabato 14 maggio 1988, p. 47).

[31] Ivi, p. 168.

[32] Ivi, p. 169.