di Federico Giusti, Ascanio Bernardeschi, Alessandra Ciattini, Adriana Bernardeschi
I poveri hanno perso nell’ultimo anno e mezzo il 10 per cento del potere di acquisto: nonostante gli aiuti statali la perdita è evidente e non saranno certo i provvedimenti inseriti nella manovra di bilancio a cambiare le cose. Per alcuni il problema è politico, alcuni ritengono che la sola opposizione nel paese sia quella della Cgil e altri, invece, ritengono irriformabile questo sindacato, ma senza porsi mai il problema di perseguire l’obiettivo della ricomposizione delle forze conflittuali almeno in ambito sindacale.
La situazione non è eccellente, le scappatoie ideologiche diventano le soluzioni migliori per coltivare pie illusioni sul futuro senza mai chiedersi se non siano invece errate le tematiche e le prospettive oggetto di discussione: intendiamo la crisi dei salari e delle pensioni, dell’inadeguatezza del welfare e del sistema fiscale o perfino del ruolo stesso dello Stato.
La prossima manovra di bilancio si prefigge un obiettivo chiaro: aumentare il potere di acquisto dei salari medio-bassi ricorrendo al taglio del cuneo fiscale.
Una scelta forse più coraggiosa di quelle dei governi di centro-sinistra, ma, se guardiamo ai fatti, in piena continuità con questi ultimi. Affermare ciò non significa indebolire l’opposizione al governo delle destre, non ribadirlo offre invece alibi a quanti l’opposizione non la fanno e pensano solo alle elezioni.
L’idea che tagliando il cuneo fiscale si portino benefici ai salari non è nuova; infatti, il governo Draghi potrebbe rivendicarne i diritti di autore. Ma se io taglio le tasse sul lavoro, indistintamente ai datori e ai dipendenti, ogni anno sarà necessario finanziarne la copertura economica. Le aziende dormono sonni tranquilli, non tirano fuori un euro in più e si trovano avvantaggiate dalla riduzione delle tasse, che poi si sommano a tutti gli altri aiuti e sgravi fiscali ricevuti. Su questo punto, dirimente, non esiste opposizione sindacale a conferma che il taglio delle tasse mette tutti d’accordo.
E concordi sembrano essere datori e sindacati rappresentativi, anche davanti alle richieste dei rinnovi contrattuali inferiori al costo della vita di almeno due punti, decretando così ulteriori perdite di potere di acquisto, proprio come accadrà nella Pubblica amministrazione a fine anno (le cifre stanziate per i contratti pubblici sono un terzo di quelle richieste inizialmente dai sindacati).
Il capitalismo italiano è da anni in crisi, la nostra economia non cresce e anni di regali alle imprese ne hanno rallentato la decadenza, ma la cura si dimostra fallace dopo lustri di delocalizzazioni produttive e scarsi finanziamenti in materia di ricerca, formazione e processi innovativi.
Di questo dovremmo parlare per chiarezza verso la forza-lavoro senza avere la pretesa di tirarla per la giacchetta anche in assenza di una lettura chiara della realtà.
La riduzione delle aliquote fiscali è un grave errore: ci si illude che pagando meno tasse l’economia possa crescere mentre invece aumentano le disuguaglianze, il precariato, i bassi salari e peggiorano le condizioni delle classi sociali meno abbienti per gli inevitabili e costanti tagli al Welfare.
Siamo davanti a un bivio occultato dalla retorica populista da un lato e dalla concertazione sindacale dall’altro.
Da notare che gli aiuti statali italiani sono assai inferiori a quelli accordati da Francia e Germania, ma poi chi ne beneficia in misura maggiore? Senza dubbio le imprese che a loro volta aumentano i profitti e gli utili per gli azionisti. Ai lavoratori e alle lavoratrici invece arrivano solo le briciole, con cui sembra non riescano più a campare. Da un sondaggio risulta che il 63 per cento degli italiani arriva a stento a fine mese.
Un recente studio della Bce non solo giudica insufficienti gli interventi a sostegno dei redditi da lavoro, ma evidenzia anche come la crisi degli ultimi anni abbia alimentato le disuguaglianze sociali ed economiche anche attraverso sistemi fiscali fin troppo generosi con le classi più abbienti.
L’Italia ha registrato più di ogni altro paese la caduta del potere di acquisto delle classi meno abbienti e pesano non poco sulle spalle dei lavoratori il massiccio ricorso ai contratti precari, a tempo determinato e part-time, e anche il sistema fiscale, oltre alla scellerata cancellazione del reddito di cittadinanza e alla mancata adozione di un salario minimo adeguabile all’inflazione.
Crediamo siano questi problemi ineludibili da affrontare se vogliamo uscire dalla palude in cui siamo stati relegati, un ragionamento a tutto campo su reddito, salari, pensioni e fisco che ormai non alberga nelle realtà sindacali di base e ancor meno in quelle confederali.
Non è un obiettivo ambizioso, ma solo una mera necessità, perché la confusione regna sovrana e anche le classiche letture e interpretazioni della fase sono fin troppo politiciste (quando non cadono nella illusione elettorale), ma assai poco ancorate alla lettura oggettiva della realtà sociale ed economica. Uno sforzo analitico indispensabile per avere degli argomenti da portare nel dibattito sindacale, sociale e politico senza restare spettatori passivi di decisioni assunte da altri, dal governo, dai tavoli con i sindacati concertativi, dagli economisti della domenica che imperversano sui media nazionali e locali.