Storia della Colonna Infame, di Alessandro Manzoni

Di Sergio Leoni

La figura dell’“untore” rappresenta in breve tempo l’ideale capro espiatorio su cui riversare, da subito, la disperazione, e poi la collera di una popolazione colpita in maniera violenta, e senza che si potesse vedere una qualche via d’uscita da un “morbo” che il senso comune non riesce a comprendere, se non come espressione di una volontà avversa, ancorché divina

La “Storia della colonna infame” concepita da Alessandro Manzoni come un capitolo da inserire, come una particolare “digressione”,   nella prima stesura del suo capolavoro, i “Promessi sposi “ che in quegli anni, siamo intorno al 1840, era ancora titolato, provvisoriamente, “Fermo e Lucia”, si era talmente dilatata in ampiezza da suggerire all’autore la possibilità e infine la necessità di farne un opera compiutamente autonoma: non già un romanzo ma piuttosto una riflessione su un tema che, come vedremo, non è soltanto legato ad un preciso periodo storico, ma finisce per sollevare, inevitabilmente, un’analisi ben  più ampia, e che va molto al di là dei tempi in cui si era svolta quella triste vicenda. Decisione, questa, che suscitò allora la delusione di quei lettori, evidentemente un po’ di più dei quattro (o ventiquattro, ma il senso non cambia) cui ironicamente sosteneva di potersi rivolgere lo scrittore milanese, che si aspettavano, evidentemente, un romanzo nel solco dei “Promessi sposi”. E che, per altri versi, mostra intanto come un mercato, per quanto di dimensioni che oggi dovremmo quantificare come ridottissime, comunque già esisteva e decideva quali testi far uscire, in che modo e con quali tempi. Del resto l’Ottocento è il secolo dei grandi romanzi, a partire da quelli russi per finire con quelli provenienti dalla Francia, in una stagione che ha sfornato praticamente   capolavori di ogni genere e in ogni regione del Vecchio Continente.

La critica letteraria più consolidata è d’accordo sostanzialmente sul fatto che Manzoni avesse spesso dei ripensamenti rispetto alla stesura definitiva dei suoi testi, che invariabilmente avrebbe, di volta in volta, voluto correggere, emendare, migliorare. Atteggiamento del resto non raro presso molti scrittori e che riguarda indifferentemente autori antichi, moderni o contemporanei. Problema di non poco conto, peraltro, e di cui si occupa per così dire “a tempo pieno”, una disciplina, la filologia, che tratta e analizza tutti quei meccanismi psicologici, quei ripensamenti, e ancora ulteriori ripensamenti, insomma tutte quelle scelte che vengono definite come “varianti d’autore”, e che sono il viatico con cui lo scrittore conduce la sua opera alla pubblicazione.

 La filologia si occupa naturalmente, e in pari grado, anche delle “altre” varianti che intervengono, ad esempio, durante la trascrizione di un testo, varianti che spaziano dal banale ’errore” di un copista, al fraintendimento di un correttore di bozze, per restare nell’ambito dei casi più comuni.

Il “ripensamento”, questa variante così radicale, è verosimilmente il vero atto di nascita della “Storia della colonna infame”, che venne pubblicata soltanto negli anni della quarantesima (!) edizione dei “Promessi sposi”, come opera del tutto autonoma e come una profonda riflessione su un tema che in quel romanzo non avrebbe potuto, egli se ne era fatta evidentemente una ragione, che essere del tutto marginale. E quindi la “Storia della colonna infame” va letta non più come una troppo lunga “nota a margine”, (oggi si direbbe uno spin off) di un’opera “maggiore”, ma come una riflessione completa, autonoma, e approfondita di diverse questioni, a partire da quella più stringente, nel caso, delle confessioni estorte sotto tortura, a quello più generale delle responsabilità individuali rispetto della difesa della dignità umana.

Tra il 1630 e il 1631 la città di Milano, a quel tempo “governata” dagli spagnoli e, naturalmente, tutta la campagna intorno al capoluogo, vive una stagione drammatica dovuta ad una epidemia di peste.

E’ parere quasi unanime degli storici, e la cosa sembra del tutto ragionevole, che tale epidemia possa essere  collegata alla discesa, nell’Italia del nord, di un esercito di “lanzichenecchi”, truppe più o meno mercenarie, arrivate  in Italia per calare   nei territori di Mantova e risolvere, con la violenza e con le armi, una questione di successione che oggi definiremmo marginale, in  una piccola città stato, ma comunque in una Italia sempre terreno di scorrerie provenienti da una Europa in cui le alleanze tra i potenti durano lo spazio di un mattino, in cui la parola data conta meno di zero e la cronaca è costretta a registrare i continui cambiamento di campo dei protagonisti.

Altrettante figure drammatiche, dal canto loro, di un gioco in cui i soli perdenti sono le popolazioni che vivono questi cambi di regime con la stessa indifferenza e rassegnazione con cui, non è difficile immaginare, pagano tributi normalmente esosi a padroni di cui, probabilmente, a stenti ricordano nome e casato, e della cui legittimità a governarli, non hanno neanche la più pallida idea. Qui non esiste ancora uno “Stato “, ma sostanzialmente un territorio di Milano governato dagli spagnoli, della cui occupazione sono ancora visibili oggi, in alcuni tratti, le mura del secondo anello della circonvallazione della città, che come nel tronco aperto di un albero, svela in qualche modo l’età della città stessa, e i periodi storici in cui può essere suddivisa la sua “vita” sociale e politica. Lo Stato, e comunque il potere che nei fatti lo rappresenta,  è quello di  una Spagna che non è lontana solo in termini di chilometri dai territori italiani, cosa che in realtà non è mai stato e non è un problema (gli imperi si sono sempre estesi a distanza molto grandi in rapporto ad ogni epoca e questo fatto, spesso, è stato anche la causa della loro caduta) ma che di lì, per procura, li affida ai sedicenti potentati locali (il don Rodrigo dei Promessi sposi ne è il perfetto rappresentante) che non hanno il minimo interesse a  governare la “cosa pubblica” ma, viceversa, grandissimo interesse a gestire un potere senza contraddittorio, cioè  una signoria di paese. In definitiva di esercitare un potere che nasce solo dalla prepotenza, dalla violenza, dal sopruso sistematico.

L’episodio che apre i ‘Promessi sposi, con una intimidazione che anticipa, nel racconto, di quasi due secoli quelle mafiose da parte dei nuovi e aggiornati “bravi”, è solo il primo capitolo in cui si codificano i rapporti di potere reale, si stabiliscono le gerarchie e le eventuali catene di comando.

Che è poi la prassi consueta, quella che caratterizza la nascita di tutte le sedicenti “signorie”, a partire dai fiorentini Medici, mecenati e insieme affaristi poco meno che dediti all’usura, fino al Duca di Urbino che, per parte sua, finanzia (la cosa pare sufficientemente credibile) o comunque sostiene la congiura dei Pazzi che cerca di rovesciare i Medici a Firenze. Opposte fazioni, stesso sistema di prevaricazione sul piano sociale. Finanziamento e protezione di artisti (un mecenatismo non tanto di facciata quanto complementare alle politiche dei potenti) i quali, malgrado loro, costituiscono in qualche modo il fondo “culturale”, la giustificazione che deve poter edulcorare o almeno smussare un potere che è certamente nato dalla violenza e che da questa trae la sua sola ragione di esistere.

 Milano. Giugno del 1630: in piena pandemia, le autorità religiose promuovono una processione, rito scaramantico a tutti gli effetti, paragonabile alle tante disprezzate “danze della pioggia” dei nativi di tutti i continenti raggiunti dalla “sedicente” civiltà. Che tuttavia avevano almeno la motivazione di un rispetto nei confronti della natura che qui non si vuole certo elevare a paradigma (come propone un ambientalismo che potremmo definire “ingenuo”), ma costituiva la base di una società che, oggi, viene sbrigativamente giudicata “arcaica”.

Ancora una volta, quella che si sarebbe dovuto considerare una patologia da affrontare in termini “scientifici”, con i mezzi, pur modesti e rozzi dell’epoca, viene catalogata come una sorta di punizione divina. Una volta di più la religione trova il modo di far sentire in colpa coloro che sono invece solo vittime non di un giudizio divino, ma della stupidità, della incoerenza e dell’imprudenza di un ceto dominante che non conosce altra regola se non quella di perpetuare il proprio dominio.

La peste, inevitabilmente, trova terreno fertilissimo per diffondersi.

La stima dei morti per quella che, alla fin fine, è stata “solo” una delle tante epidemie che hanno attraversato l’Europa nei secoli, oscilla tra le 140.000 e le 165.000 vittime.  L’incapacità delle autorità preposte ad arginare, quantomeno, una pandemia disastrosa, fa il paio con l’espediente di trovare, in modo del tutto arbitrario e senza uno straccio di prove, uno o più “colpevoli”. Su costoro deve scaricarsi, come una sorta di parafulmine, l’indignazione di una società che, da un lato non ha alcuno strumento culturale per contraddire quello che il potere diffonde come notizie certe e verificate, e dall’altro lato vive in prima persona l’inconsistenza di “spiegazioni” alternative che non hanno in realtà alcun fondamento.

Trovare un colpevole o più colpevoli. Questo l’imperativo che muove le poche istituzioni che dovrebbero occuparsi della salute pubblica e che invece si preoccupano di trovare i “responsabili” di qualcosa di cui in realtà ignorano cause ed effetti.

La figura dell’“untore” rappresenta in breve tempo l’ideale capro espiatorio su cui riversare, da subito, la disperazione, e poi la collera di una popolazione colpita in maniera violenta, e senza che si potesse vedere una qualche via d’uscita da un “morbo” che il senso comune non riesce a comprendere, se non come espressione di una volontà avversa, ancorché divina.

Con modalità e una logica che si fa fatica a definire tale, vengono arrestati due “personaggi” che sono l’esempio più eclatante di errore giudiziario.

Una guardia, un barbiere. Sorpresi, secondo delazioni la cui credibilità sarebbe dovuta apparire ai giudici quantomeno precaria quando non del tutto infondata, a spargere unguenti in luoghi che definire improbabili è il minimo. Anfratti nei muri, pareti di improbabili “nascondigli”. Quanto di più inverosimile si potrebbe pensare riguardo a persone che “davvero” avessero voluto diffondere la peste.

Gli accusati, ma già, nei fatti, è stata spiccata contro di loro un’accusa che assomiglia da subito ad una condanna, e non gli “indiziati”, come prassi ancor non vuole, vengono sottoposti a tortura.

È qui il cuore e la sostanza di questo pamphlet che sembra lontano nel tempo, ma la cui attualità si rivela, innanzi tutto, (e il tema occupa larga parte del libro), nella critica serrata alla pratica della tortura per ottenere confessioni “veritiere”. Difficile dire se questa critica così rigorosa, ampiamente documentata ma soprattutto incredibilmente sostenuta su un piano logico, sia stata la prima in ordine di tempo nel vecchio continente.

Sicuramente questa posizione così precisamente orientata dalla parte di Alessandro Manzoni, risente fortemente di un clima che non si potrebbe onestamente ancora definire liberale, e quindi orientato decisamente nella difesa di quei “diritti umani”, oggi ritenuti, almeno su di un piano teorico largamente disatteso, come diritti inviolabili.

Ma Pietro Verri non ha scritto invano. E Carlo Imbonati, tra i fondatori dell’Accademia dei Trasformati, a sua volta non può non essere stato un esempio di un intellettuale dedito, alla maniera in cui è possibile farlo per questa strana “figura”, a cambiare il mondo. A cambiare i rapporti di forza in una società che si dipinge “democratica” ma tende sempre a consolidare la sedicente ragione del più forte.

Del resto una contraddizione palese doveva pur emergere in un cattolico onesto fine alle ultime conseguenze   come Manzoni di fronte ad un “caso” lontano nel tempo, sì, ma che metteva in evidenza tutte le storture e i fraintendimenti di una chiesa cattolica più dedita alla repressione di ogni libero pensiero che all’inveramento di un  messaggio di liberazione quale dovette apparire ai tanti riformatori finiti, con drammatica logica,  sui roghi non metaforici degli eretici di ogni tempo

Gli accusati e i condannati, in quel processo farsa, finirono tutti per confessare colpe non commesse pur di sottrarsi alle terribili torture che venivano loro inflitte. Divennero a loro vota delatori, nel tentativo disperato di allontanare da sé stessi il dolore di pratiche che erano solo, rispetto ai nostri giorni e in certi contesti, solo un po’ meno raffinate, ma forse più crudeli.

Sui giudici che quelle torture autorizzarono e anzi sollecitarono, il giudizio di Manzoni è perentorio: “Ma la menzogna, l’abuso del potere, la violazione delle leggi e delle regole più note e ricevute, l’adoprar il doppio peso e doppia misura, son cose  che si possono riconoscere negli atti umani; e riconosciute, non si posson riferire ad altro che a passioni pervertitrici della volontà; né per ispiegare gli atti materialmente iniqui di quel giudizio, se ne potrebbe trovar di più naturali e di men tristi, che quella rabbia  e quel rancore”.

Dove sorgeva la “colonna infame”, sui pochi resti della casa di Mora, uno degli accusati, rasa al suolo, non lontano dalla chiesa di San Lorenzo (siamo nei paraggi di Porta Ticinese, dunque pieno centro di Milano), oggi si trova una casa di difficile datazione, ma di  molto, molto posteriore all’epoca dei fatti che, a ben riflettere e su un altro piano, non sono poi così lontano da noi, anche se sembrano parlarci da un mondo non remoto nel tempo quanto nella percezione, o nel giudizio rispetto a quei fatti.

Su quello stesso luogo sorgeva la colonna che ricordava, a futura memoria, tutta la depravazione di pochi cittadini diventati gli “untori” in un contesto, diremmo oggi, in cui ogni categoria morale ed etica venne totalmente stravolta. E’ stato detto da qualcuno ( e molti filosofi, scrittori, storici  si sono espressi sulla vicenda della “Colonna Infame”), che quello stessa colonna, questa specie di monumento al contrario che ricorda il reo, o i colpevoli, in realtà, se non fosse stata abbattuta, avrebbe costituito  un formidabile atto di accusa contro quei giudici che non seppero amministrare la giustizia secondo coscienza, secondo verità (per quanto questa verità potesse essere difficile da trovare), ma preferirono, a loro perpetuo disonore seguire la via più facile. Quella che da sempre accontenta, ma apparentemente e nel tempo diventa un boomerang, la cosiddetta “opinione pubblica”. 

L’epoca in cui avvennero i fatti non ci autorizza, in nessun modo, a credere che quel genere di storture nell’amministrazione della giustizia siano il portato di una mentalità appartenente a secoli a noi lontani e che quindi non potrebbero mai più ripresentarsi in forme adattate ai nostri giorni.

La pratica della tortura, sia essa fisica che mentale, è tutt’altro che scomparsa dallo scenario mondiale e non passano mesi in cui non vengono svelati nuovi crimini legati a questo procedimento su cui è impossibile dare una definizione che non sia quella di un orrore intollerabile.  

Bisognerebbe chiedersi oggi che cosa devono aver provato quei soldati   dell’Armata Rossa che per primi (a dispetto di una vulgata che vorrebbe che i campi di concentramento e di sterminio nazista sarebbero stati “liberati” dagli americani) hanno potuto vedere con i loro occhi quello che forse si riteneva “impossibile”. Lì, non credo ci sia niente di forzato in questa affermazione, s’è inverato il sogno di qualunque potere autocratico di poter tacitare ogni forma di dissenso e, inoltre, quello di poter distribuire pene o assoluzioni secondo criteri sottratti ad ogni controllo.

La sedicente civiltà occidentale si è realmente emancipata da quello che fa comodo pensare essere solo una parte, non rilevante, della sua storia?

La risposta, purtroppo negativa, apre uno scenario che potrebbe essere anche più inquietante, quello in cui è proprio questa sedicente cultura occidentale ad aver insegnato a tutto il mondo metodi e forme di controllo tanto specializzate quanto consolidate.

Il resto del mondo, che il cosiddetto Occidente fa tanta fatica ad ammettere essere la maggior parte dell’umanità, non ci presenta un quadro migliore, ma non sembra essere qui il caso di stabilire una sorta di classifica di chi si è macchiato delle più “ingegnose” e sempre oscene efferatezze.

Alessandro Manzoni, viene giustamente notato nella Prefazione scritta da Tonelli che scrive la prefazione e di cui non conosciamo altro,   dimostra in questo testo anche una notevole conoscenza dei meccanismi, delle procedure processuali, delle leggi vigenti su casi che evidentemente non dovevano essere così frequenti se la loro celebrazione (e mai termini fu così appropriato) scatenò un grande curiosità, in parte certamente morbosa, e in ogni caso un interesse perfettamente comprensibile.

Dopotutto c’era in gioco l’idea, rivelatasi naturalmente del tutto infondata nel corso dei decenni successivi e a fronte dei progressi della medicina, che un “morbo”, una malattia, potesse nascere da interventi “malevoli”, da qualche forma di congiura di cui, peraltro, sarebbe stato difficile capire lo scopo e il fine ultimo.

Ancora, e infine, Manzoni: “E per venire finalmente all’applicazione, era insegnamento comune, e quasi universale de’ dottori, che la bugia dell’accusato nel rispondere al giudice, fosse uno degli indizi legittimi, come dicevano, alla tortura”.