Mario Rigoni Stern: “Il sergente nella neve” e i segreti del bosco

di Antonio Catalfamo *

La Resistenza, le atrocità della guerra, le sofferenze subite, ispirano tutto un filone narrativo della letteratura neorealista. Assistiamo ad un proliferare di diari, testimonianze, ricostruzioni romanzate delle esperienze vissute. Il neorealismo va anche apprezzato per questa sua dimensione collettiva, cioè per aver spinto pure dei “non professionisti” a raccontare le loro storie, che hanno affascinato un vasto pubblico di lettori, divenendo patrimonio nazionale. Si pensi alle opere di Primo Levi, a L’Agnese va a morire di Renata Viganò (Einaudi, Torino, 1949), ai libri di memorie sulla campagna di Russia di Nuto Revelli e di Mario Rigoni Stern.

A lungo è stata negata dignità letteraria a questo materiale, considerato semplicemente “documentario”. Mario Rigoni Stern è stato, appunto, considerato un outsider della letteratura, uno capitato quasi per caso nel campo delle lettere in quanto narratore di un’esperienza vissuta in prima persona ed interessato a comunicarla agli altri. Lo stesso Vittorini, che per primo pubblicò Il sergente nella neve (Einaudi, Torino, 1953; ma si cita sin d’ora da Il sergente nella neve. Ritorno sul Don, Einaudi, Torino, 1998), nella collana dei Gettoni einaudiani, sembrò avvalorare questa chiave di lettura, scrivendo nel risvolto di copertina, a proposito dell’autore: «Non è scrittore di vocazione. Nato ad Asiago trent’anni or sono, alpinista, cacciatore, impiegato statale, forse non sarebbe mai stato capace di scrivere di cose che non gli fossero accadute». Lucio Lombardo Radice si rivelò pessimo profeta, prevedendo che Il sergente nella neve sarebbe rimasta l’unica opera di Rigoni Stern: «Il diario del sergente Rigoni sulla sua ritirata di Russia è probabilmente un’opera che rimarrà sola, legata com’è non ad una vocazione letteraria, ma ad una esperienza eccezionale fedelmente descritta» («Rinascita», giugno 1953). Luigi Baldacci («Il Popolo», 26 giugno 1962), con la solita irruenza, a distanza di anni, andrà giù con mano pesante, definendo «linda, educata, sensibile» la scrittura di Rigoni Stern, ma osservando, nel contempo, che si tratta di uno scrivere bene solo apparente, di un «virtuosismo lirico» che rivela, ad un’analisi più attenta, convenzionalità e meccanicità.

Avremo modo di dimostrare, nel prosieguo della trattazione, che il Nostro è uno scrittore tutt’altro che improvvisato. Ci limitiamo qui a constatare che i giudizi sopra richiamati ripropongono un errore tipico della critica letteraria italiana, che, prima del De Sanctis e anche dopo, ha distinto maldestramente in uno scrittore forma e contenuto. Se per Rigoni Stern si ritiene valido il secondo, ma non la prima, la sorte inversa è toccata, in tempi lontani, al Leopardi delle Operette morali. Si tratta, dunque, di un vizio antico.

Intanto, le opere di Rigoni Stern hanno segnato una svolta nella memorialista sulla campagna di Russia. Prima di lui – e di Nuto Revelli – esistevano testimonianze assolutamente individuali, che, come tali, non riuscivano ad uscire dalla sfera privata e ad assurgere a dramma collettivo, e scritti polemici, che intendevano alimentare la campagna anticomunista e antisovietica sulla presunta questione dei soldati italiani “dispersi” in Russia, che si diceva fossero prigionieri nei campi di lavoro staliniani o fatti morire di fame e di stenti. Un cappellano militare, Carlo Chiavazza, pubblicò un volume di memorie, intitolato Scritto sulla neve (Editrice Ponte Nuovo, Bologna, 1964; ma si cita sin d’ora dalla VII edizione ampliata, ottobre 1965), un’opera sostanzialmente agiografica, che esaltava le imprese dell’esercito italiano in terra russa e trasudava anticomunismo. Il libro ebbe ampia diffusione, anche in edizione scolastica. Esso ripeteva il solito schema: «italiani brava gente» e russi cattivi, perché comunisti. Il cappellano non denunciava i crimini compiuti dagli occupanti fascisti, snocciolava, al contrario, quelli compiuti presuntivamente dai russi.

Leggiamo solo qualche brano esemplificativo: «Nicolajewka è ricaduta in mattinata in mano alle truppe russe. Non fanno complimenti i soldati dell’armata rossa. I feriti, gli intrasportabili vengono eliminati. Un colpo di pistola in fronte o alla nuca, una sventagliata di mitragliatrice, una mazzata sul cranio con il calcio del fucile. Gli italiani alle spalle della colonna alpina sono nella quasi totalità intrasportabili. Le truppe russe hanno fretta, hanno i loro feriti e scarseggiano di viveri e poi vorrebbero fermare gli alpini di ferro che da dieci giorni camminano, combattono, travolgono ogni sbarramento e proseguono in una avanzata allucinante e spaventosa» (ivi, p. 139). E più avanti: «Quando chiudiamo alle nostre spalle l’uscio delle isbe dopo avere dato l’estremo addio a quegli alpini abbandonati, distesi sulla paglia o nei letti, con i corpi disfatti sappiamo quale sarà la loro sorte. Verranno eliminati uno ad uno, se la morte non precederà l’arrivo delle truppe o dei partigiani. Come bestie immonde, uno ad uno, li getteranno nei fossi, sui letamai, nelle macchie nere dei boschi. Saranno prima spogliati di tutto ciò che hanno addosso, dalle calze alle maglie, dall’orologio alla catenina, dono della mamma, della moglie o della fidanzata. Li butteranno all’addiaccio perché nella notte i cadaveri siano preda dei lupi e di giorno servano di pasto ai corvi. La guerra ha distrutto ogni cosa, anche la pietà. L’anima slava resta per noi un mistero impenetrabile e contraddittorio. Mentre cammino, intruppato nella colonna, passo in rassegna gli episodi più salienti che hanno caratterizzato i nostri rapporti con la popolazione russa o meglio con gli ucraini. Noi italiani non abbiamo odiato nessuno, al contrario abbiamo voluto bene a questa gente dell’Ucraina, l’abbiamo amata a nostro modo aiutandola spesso, curando gli ammalati, distribuendo viveri, prendendo parte alla sua immensa angoscia» (ivi, pp. 148-149).

Il cappellano-scrittore tratteggia in termini razzisti il carattere delle popolazioni slave: «E’ difficile capire queste donne, questo vecchio che mi parlano. Sono ucraini, sono slavi intelligenti e fieri, sentimentali e violenti, generosi e bugiardi, mistici e fatalisti, amici e nemici nello stesso tempo. Qui, nella casa dei miei ospiti, vedo il loro volto disteso in un sorriso amabile, ciò non toglie che quando sarò fuori e svolterò l’angolo per allontanarmi dal paese sentano il dovere di spararmi alla schiena. Tutti e due gli atteggiamenti sono sinceri, corrispondono ad una mentalità complessa, misteriosa e bizantina. Non era forse così anche negli altri villaggi? Certo, era così. L’ospitalità, le cortesie, l’affettuosa trepidazione verso gli italiani, sani, feriti, congelati, giungeva a limiti di estrema bontà. L’avevamo sperimentato anche durante i giorni della ritirata. Eppure le cure amorevoli verso i feriti non impedisce [sic!] loro di eliminarli. Inutile elencare i motivi di questo atteggiamento, inutile parlare d’amor di patria o di terrore dell’armata rossa. C’è un sottofondo atavico, secolare, quasi religioso, che l’uomo venuto dall’occidente non riesce a penetrare e che tuttavia determina un rancore inconscio ma reale per cui l’umile gente della campagna ucraina passa rapidamente dal riso alle lacrime, dall’amore all’odio, dalla vita alla morte, dalla premura affettuosa e commossa verso il ferito, il congelato o comunque il sofferente, alla più improvvisa e spietata rappresaglia» (ivi, p. 153).

Nel capitolo conclusivo, Cronache dell’orrore (ivi, pp. 167-172), Chiavazza affrontava la già citata questione degli italiani prigionieri in Russia, fatti morire di stenti da Stalin.

Nuto Revelli gli replicò con un articolo dal titolo significativo: Bugie «scritte sulla neve» («Lotte nuove», 4 maggio 1964). L’ex ufficiale degli alpini, decorato come eroe di guerra, gelò le speranze dei familiari dei “dispersi”, alimentate da una campagna propagandistica di grandi dimensioni, particolarmente intensa in provincia di Cuneo, ma anche nel Mezzogiorno d’Italia. Testimoniò che i suoi commilitoni che, a migliaia, mancavano all’appello dei superstiti erano bell’e morti sotto la neve, nella disastrosa ritirata. Denunciò i crimini del regime fascista, che li aveva costretti ad andare in Russia con le suole di cartone. Il fascismo li aveva fatti morire, non i russi.

L’atteggiamento di Rigoni Stern e di Revelli è quello di chi guarda indietro per andare avanti. E’ il primo a spiegarci il processo formativo che operò in entrambi – e in tanti altri – a partire dalla campagna di Russia. Le varie tappe vengono individuate dallo stesso Rigoni Stern in uno scritto pubblicato in occasione dell’ottantesimo compleanno di Nuto Revelli e a lui dedicato (Lettera a un amico, in Michele Calandri e Mario Cordero (a cura di), Nuto Revelli. Percorsi di memoria, numero monografico de «Il Presente e la Storia», n. 55, giugno 1999, pp. 191-193).

È il contatto con gli alpini ad aprire la riflessione, a far capire che le nozioni imparate in accademia sono false, così come tutta la propaganda del regime. Scrive Rigoni Stern, rivolgendosi idealmente all’amico Nuto: «Non era stata la scuola del “Littorio”, nemmeno la Regia Accademia di Modena dove, da buon piemontese, avevi studiato per diventare ufficiale effettivo. A farti intuire quanto questa nostra Italia fosse allora sbagliata e ingannatrice fu il tuo primo contatto con gli alpini al reggimento, fu una rivolta, direi, professionale: quanto avevi appreso, quanto avevi studiato, quanto ti eri preparato a comandare uomini ti appariva ora quasi inutile e molto vecchio, da guerra risorgimentale. Il contatto con i tuoi alpini che già avevano provato la tristissima guerra di Albania, l’amicizia e la reciproca stima con qualche ufficiale, la tua razionalità e la tua caparbietà nel voler conoscere, capire, prima che ad altri ti fecero aprire gli occhi su cosa eravamo noi, cosa i russi. Anche, al primo incontro, la professionalità dei militari tedeschi ti era apparsa efficiente sì, ma maledettamente inumana. Ma ancora più hai capito “gli altri”, ossia quelli, ed erano tanti, che dalle nostre retrovie facevano una fila lunga fino a Roma dove stavano quelli che davano origine e principio a tanti inutili disastri» (ivi, pp. 191-192).

La verifica sul campo delle responsabilità del regime fascista, che aveva mandato migliaia di uomini allo sbaraglio in una guerra di contadini contro altri contadini, la quale serviva solo ad alimentare i sogni imperialistici e sanguinari di Mussolini ed Hitler, comincia a diradare la cortina di nebbie che avvolgeva la mente di Revelli e di Rigoni Stern: «L’è calüsia, dicevano gli alpini. C’era proprio tanta nebbia e confusione, ma nella calüsia anche loro, noi, incominciammo a vedere chiaro. Non è mai tardi, dicevano, e anche pietà l’è morta. Divennero i tuoi motti quando diventasti partigiano. Non c’era stata pietà per noi e quando ritornammo in quella primavera avevamo il torto di essere ancora vivi: testimoni della disfatta dell’era fascista. E tu che avevi capito tutto molto chiaramente portasti dal fronte russo, non come cimelio, tre armi automatiche che ti sarebbero venute buone dopo l’8 settembre 1943. Fu quella una pagina molto nera della nostra storia, ma per molti fu anche illuminante. Anche per chi, come me, andò a finire nei lager tedeschi e se la Resistenza tua e dei tuoi partigiani fu dura, sanguinosa e spietata, la nostra fu amara, malinconica e affamata anche di quella libertà di cui voi sulle montagne potevate godere. Noi sopravvissuti alla campagna di Russia una cosa in comune però avevamo: la rabbia. Una grande rabbia contro fascisti e tedeschi accumulata dentro passo dopo passo sulla neve della ritirata» (ivi, p. 192).

L’esperienza di Russia fa maturare le coscienze di molti, come Revelli e Rigoni Stern, ed è quindi la premessa per la rinascita dell’Italia, fondata sui nuovi valori di libertà e di pace.

Il sergente nella neve è, appunto, un “romanzo di formazione”, testimonianza viva di questo processo educativo che interessò tutta una generazione. Le capacità di scrittore di Rigoni Stern emergono già dall’incipit, nel quale egli descrive le sensazioni olfattive, uditive, visive, emotive, vissute in trincea, sul caposaldo del Don, ed ora rivissute, a distanza di anni, con la stessa intensità, nel richiamarle alla mente e raccontarle. Ma il miracolo di Rigoni Stern sta nel farle rivivere con la medesima carica emotiva e partecipativa al lettore. Così inizia Il sergente nella neve: «Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò le sue settantadue bombarde» (cit., p. 9).

Lo scrittore decide di precipitare subito il lettore in medias res, senza soffermarsi sul contesto storico nell’ambito del quale si svolge la vicenda, ed anche quest’abile espediente narrativo ha lo scopo di coinvolgere emotivamente, sin dall’inizio, il pubblico. Il contesto emerge, a poco a poco, dal racconto. Capiamo di trovarci nella zona del Don, in un caposaldo situato sulle rive del fiume dei cosacchi, poco prima che i russi lancino l’offensiva per accerchiare le truppe di invasione (non solo tedesche ed italiane, ma anche costituite da reparti di rinnegati dell’Est europeo) e che gli italiani si ritirino per evitare di rimanere stritolati nella morsa.

Il caposaldo italiano sembra dapprima tranquillo, quasi familiare. Scrive Rigoni Stern: «Prima che i russi attaccassero e pochi giorni dopo che si era arrivati si stava bene nel nostro caposaldo» (ibidem).

Dagli orti si possono ricavare le verdure per la minestra: «Scavando i camminamenti negli orti delle case che non c’erano più, uscivano fuori dalla terra e dalla neve patate, cavoli, carote, zucche. Qualche volta era roba buona e si faceva la minestra» (ivi, p. 10).

Si preparava la polenta: «Quando si tornava dalla vedetta, si macinava la segala. E così ci riscaldavamo prima di andare a dormire. La macina era fatta con due tronchi di rovere sovrapposti e dove questi combaciavano c’erano dei lunghi chiodi ribaditi. Si faceva colare il grano da un foro che stava sopra nel centro e da un altro foro, in corrispondenza dei chiodi, usciva la farina. Si girava con la manovella. Alla sera, prima che uscissero le pattuglie, era pronta la polenta calda. Diavolo! Era polenta dura, alla bergamasca, e fumava su un tagliere vero che aveva fatto Moreschi. Era senza dubbio migliore di quella che facevano nelle nostre case. Qualche volta veniva a mangiarla anche il tenente che era marchigiano. Diceva: – Com’è buona questa polenta! – e ne mangiava due fette grosse come mattoni» (ivi, pp. 10-11).

Anche le urla di richiamo degli alpini sembrano essere quelle di casa: «Pareva proprio di essere sulle nostre montagne e sentire i boscaioli chiamarsi fra loro. Specialmente di notte quando quelli del Morbegno, che erano nel caposaldo alla nostra destra, uscivano sulla riva del fiume a piantare reticolati e conducevano i muli davanti alle trincee e urlavano e bestemmiavano e battevano pali con le mazze. Chiamavano persino i russi e gridavano: – Paesani! Paruschi, spacoina noci – I russi, stupefatti, stavano a sentire» (ivi, p. 11).

Rigoni Stern fa visita ai commilitoni, agli ufficiali, nelle loro tane, come si usa fare al paese con parenti e amici: «Mi pareva di essere al paese come quando si va da una contrada all’altra per trovare un amico e far due chiacchiere all’osteria» (ivi, p. 18).

Anche le armi sembrano avere un aspetto familiare, a partire dalla mitragliatrice: «La pesante sporgeva la canna verso un campo di granone indurito dal gelo: pareva una capra tanto sembrava magra, la pesante, e sotto la pancia aveva un elmetto di brace viva» (ivi, p. 21).

Ma il clima familiare è solo apparente. È un modo per esorcizzare la paura non solo della morte, ma anche di attraversare la steppa che, per migliaia di chilometri, coperti di neve, circonda il caposaldo, che assume dunque il ruolo di una sorta di “nido” familiare di pascoliana memoria, di guscio protettivo.

La paura della steppa emerge sapientemente dalla narrazione attraverso riferimenti indiretti. Un commilitone domanda da che parte si trovi l’Italia, in quella distesa di neve a perdita d’occhio: «– Che bel sole oggi, vero? – Buon anno, sergentmagiù. – Buon anno, Marangoni. – Da che parte è l’Italia, sergentmagiù? – Laggiù, vedi? Laggiù laggiù laggiù. La terra è rotonda, Marangoni, e noi siamo fra le stelle. Tutti» (ivi, p. 25).

Giuanin domanda sempre più frequentemente ed ossessivamente: «Ghe rivarem a baita?».

All’improvviso, come un colpo di zappa su un formicaio, arriva la morte del tenente Sarpi, che richiama alla dura realtà della guerra: «Il tenente Sarpi era morto nella neve con una raffica al petto. Ora maturano gli aranci nel suo giardino, ma lui è morto nel camminamento buio. La sua vecchia riceverà una lettera con gli auguri. Stamattina i suoi alpini lo porteranno giù con la barella verso gli imboscati e lo poseranno nel cimitero, lui siciliano, assieme a bresciani e bergamaschi. […] Questa notte il pattuglione russo è passato di là e lui era già morto, con la neve che gli entrava nella bocca e il sangue che gli usciva sempre più piano finché si gelò sulla neve. Nella sua nicchia vicino alla stufa Giuanin mangerà il rancio e penserà: « Ghe rivarem a baita?» (ivi, p. 24).

E arriva pure l’offensiva dei russi e l’inizio della disastrosa ritirata degli alpini dal Don. Comincia qui la seconda delle due “macrosequenze” (la prima s’intitola significativamente Il caposaldo) nelle quali si divide Il sergente nella neve, intitolata, appunto, La sacca. La cronaca degli avvenimenti si fa dettagliata, quasi a volerne scandire la drammaticità. Ma, per converso, l’ “io narrante” sembra avere il fiato corto, sembra essere in affanno. Usa una prosa scarna, un periodare paratattico, fatto di brevi frasi, con poche subordinate. La fatica di chi avanza nella neve, in preda alla fame, combattendo con la forza della disperazione, sembra riverberarsi sul ritmo narrativo. La lingua usata da Rigoni Stern è quella che efficacemente è stata definita “italiano regionale”, cioè un italiano condizionato dalle strutture sintattiche e lessicali del dialetto. D’altra parte, che lingua si poteva usare per un libro che ha per protagonisti alpini di estrazione contadina, profondamente legati alla loro terra ed alla loro parlata dialettale?

La forma dev’essere adeguata al contenuto, anche se una parte, seppur autorevole, della critica non se ne rende conto e persevera su vecchi errori distintivi delle due suddette dimensioni, come abbiamo già evidenziato. Non solo. Essa rispolvera vecchie concezioni “puriste”, vecchi modi di risolvere la plurisecolare “questione della lingua”, basati sulla proposizione di “modelli” astratti. Ma Graziadio Isaia Ascoli e, dopo di lui, Gramsci e Pasolini ci hanno insegnato che la lingua vera è quella che si fa da sé, nel confronto con la società e con le sue divisioni classiste.

Se nella prima “macrosequenza” Rigoni Stern si sofferma esclusivamente sul profilo psicologico dei suoi commilitoni, nella seconda l’analisi si estende ai russi. La sua concezione è esattamente opposta a quella di “memorialisti” come Carlo Chiavazza. Rigoni Stern sottolinea la profonda umanità dell’avversario. Comincia qui un lungo percorso ideale, che porterà lo scrittore a dar ragione, col tempo, ai russi, cioè a coloro che non hanno fatto altro che difendere le loro terre, le loro case, le loro famiglie, dagli invasori nazi-fascisti. Il processo di formazione, a questo punto, è completo. Rigoni Stern – al pari di Nuto Revelli e di tanti altri che si sono formati alla dura “scuola” della campagna di Russia – si è liberato completamente dell’habitus mentale razzista e guerrafondaio che il regime mussoliniano ha imposto ai giovani della sua generazione e riesce a giudicare gli avvenimenti con maggiore obiettività. Tutto ciò lo porterà a ritornare in Russia dopo la guerra e a cercare verifiche al suo nuovo modo di pensare.

Basta una pagina de Il sergente nella neve per fotografare la concezione che Rigoni Stern ha dei soldati russi, che, nonostante la guerra e gli odi che essa ha seminato, hanno saputo conservare il senso di umanità, senza diventare bestie feroci. Lo scrittore racconta in essa di un’avventura che gli è capitata in prima persona durante un combattimento, nel corso del quale egli si è rifugiato in un’isba, già occupata da soldati russi: «Corro e busso alla porta di un’isba. Entro. Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. – Mnié khocetsia iestj, – dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. – Spaziba, – dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. – Pasausta, – mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell’ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco. Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere» (ivi, pp. 132-133).

Il ricordo della guerra accompagna Rigoni Stern per tutta la vita, tanto da spingerlo a ritornare nei luoghi in cui ha combattuto. Ritorno sul Don (Einaudi, Torino, 1973; ma si cita sin d’ora da Il sergente nella neve. Ritorno sul Don, cit.) è, appunto, il titolo di una raccolta di racconti pubblicati nel 1973, a distanza di trent’anni da Il sergente nella neve. Lo scrittore descrive un viaggio memoriale, a ritroso nel tempo, grazie al quale rievoca alcuni episodi della guerra e della prigionia nei lager tedeschi. Ma, nel racconto conclusivo, il viaggio si fa anche reale. Rigoni Stern, andato in pensione, con i soldi della buonuscita decide di ritornare anche materialmente nei luoghi in cui ha vissuto la tragica esperienza della guerra. I due piani, reale e memoriale, si intrecciano nella narrazione. Accompagnato dalla moglie, da un’interprete e da un autista, ripercorre a ritroso il lungo calvario della ritirata di Russia. Ogni luogo richiama un ricordo. Giunto nei pressi di Nicolajewka, egli si isola dalla piccola comitiva che lo accompagna. Rivivono, all’improvviso, le figure dei compagni, morti o ancora in vita: «Cammino fuori dalla pista. Capitano Grandi del Tirano, dormi in questa pace. Ti porto i saluti dei superstiti del tuo battaglione, di Nuto Revelli e di tutti gli alpini della Tridentina. Dormite in pace amici valtellinesi, in questo silenzio, in questa terra nera, in questo autunno dolcissimo. Chino la testa e poi faccio cenno con la mano: – Ci ritroveremo un giorno. Arrivederci. Dalla macchina mi chiamano. Salgo e non parlo; con la mano indico la direzione del sole che sta per tramontare» (ivi, p. 299).

E il viaggio prosegue ancora, per chilometri e chilometri, fino alle rive del Don, ai luoghi in cui sorgeva il caposaldo ben descritto ne Il sergente nella neve, rievocato nella pace attuale nell’explicit del Ritorno sul Don: «Ecco, sono ritornato a casa ancora una volta; ma ora so che laggiù, quello tra il Donetz e il Don, è diventato il posto più tranquillo del mondo. C’è una grande pace, un grande silenzio, un’infinita dolcezza. La finestra della mia stanza inquadra boschi e montagne, ma lontano, oltre le Alpi, le pianure, i grandi fiumi, vedo sempre quei villaggi e quelle pianure dove dormono nella loro pace i nostri compagni che non sono tornati a baita» (ivi, p. 317).

Ma il viaggio di Rigoni Stern ha anche un altro scopo: riconciliarsi coi nemici del tempo di guerra, i russi, ai quali egli vuol dire con estrema sincerità: «E dopo, quando ognuno poté scegliere, fui con voi. Per questo posso dire tranquillamente: – Ià italianschi, – e voi rispondermi sorridendo: – Italianschi carasciò!» (ivi, p. 290).

Nella memorialistica di guerra rientra pure Quota Albania (Einaudi, Torino, 1971), dedicato alle campagne di Francia e di Grecia. Giorgio Bocca ha posto fine, con un giudizio veramente icastico, a tutte le polemiche sollevate da una parte della critica intorno all’ “assiologia” dei racconti di guerra di Rigoni Stern, considerati “anti-italiani”, “al servizio dello straniero”, del “nemico ideologico”. Scrive Bocca: «No, le piccole storie del porta ordini Mario Rigoni Stern non sono “fatti suoi”, non sono l’insopportabile diario del letterato che non ha nulla da dire, sono le cose di tutta l’Italia umile, fuori dalla storia, che ha permesso all’altra, quella egemone, di sopravvivere nonostante le follie e gli errori» («Il Giorno», 8 dicembre 1971). Lo scrittore veneto rappresenta, dunque, quell’Italia che ha dovuto affrontare in prima persona le guerre decise per i propri interessi dai governanti e che ne ha subito veramente le conseguenze. L’Italia contadina che, dalle Alpi alla Sicilia, è stata considerata dalla classe dirigente “carne da macello”.

Con la trilogia costituita da Il sergente nella neve, Quota Albania e Ritorno sul Don, Rigoni Stern non esaurisce la vena della memoria. Alcuni elementi ritornano costanti nella narrazione, rappresentando un filo rosso. Fra questi, la neve e i ricordi. In Sentieri sotto la neve (Einaudi, Torino, 1998) i ricordi vengono presentati, appunto, come “sentieri” nascosti sotto la neve, che li mantiene in vita. Sulla stessa linea si colloca Inverni lontani (Einaudi, Torino, 1999). Accade che, al sopraggiungere dell’inverno e delle prime nevi, il flusso dei ricordi si rimette in moto. Tornano alla memoria altri inverni, i volti dei compagni morti in battaglia o di fame e di stenti, il vecchio mondo contadino e montanaro, colpito a morte dalla società consumistica e tecnologica: «Ora, giorno dopo giorno si sta avvicinando l’inverno e avrò tante memorie. Sarà come ritornare bambini, come ascoltare tante voci. Rivedere lumi nella steppa, amici, cari volti femminili. Oggi nell’acqua piovana raccolta sotto le gronde che scendono dal tetto vedo anche tante nevi lontane che il sole ha sciolto e riportato qui. Ho provato il gelo impietoso nelle stagioni della guerra, e la fame, la miseria, l’indifferenza. Ci furono degli anni nei quali le primavere non c’erano. Non si vedevano, non si sentivano dentro di noi, o i segnali erano così tenui e smorti che passavano lisci lasciando nel cuore una traccia lieve che la neve subito copriva. Come quel marzo del ’43 in Bielorussia. Primo Levi ha scritto che la Medusa non ci aveva impietriti, che l’indignazione ci aveva salvati. Ma furono gli incendi della guerra a preservarci dalla morte per il freddo? Nella steppa i villaggi bruciavano: indicavano a chi veniva dietro la strada dov’eravamo passati e che loro dovevano seguire se volevano salvezza. Sarà per questo che chi è sopravvissuto a quei giorni ama accendere il camino nelle sere d’inverno? Così nella memoria ritornano i ricordi e i volti delle persone care. Se nevica ti prende anche una forte malinconia e guardando il bosco che si imbianca rivivi tante esperienze (ivi, pp. 4-5).

Non solo la neve, dunque, ma anche il fuoco alimenta i ricordi. Primo Levi (già presente in Sentieri sotto la neve, impegnato in un colloquio ideale con Rigoni Stern) sottolinea la ribellione dell’uomo al destino, al Fato della mitologia, il prevalere in lui della solidarietà sullo spirito belluino, pur nelle circostanze difficili della guerra. Richiama, altresì, l’imperativo, che sempre lo animò, di non dimenticare gli orrori del nazi-fascismo, di continuare ad indignarsi di fronte al crimine ed alla barbarie.

In Inverni lontani il tema della memoria s’intreccia con l’altro tema dominante l’opera di Mario Rigoni Stern: il legame dell’uomo con la natura. Va rivalutato un mondo in cui l’uomo, attraverso il lavoro, entrava in contatto con la natura, creando con essa un rapporto di simbiosi, non di rottura violenta e lacerante, come è avvenuto di fatto nella società tecnologica, con tutti i disastri ecologici che ben conosciamo. I protagonisti dell’opera di Rigoni Stern riproducono, appunto, la dialettica uomo-lavoro- natura. E’ la terra la fonte di vita per l’uomo. Bisogna prepararsi per tempo all’inverno, seminando le patate, raccogliendole, conservandole con opportuni accorgimenti perché non si guastino; preparando le conserve, essiccando la legna al sole, lungo le pareti della casa; ingrassando il maiale, perché garantisca da mangiare anche se l’inverno sarà precoce e durerà a lungo.

Il rapporto armonico con la natura, i vari accorgimenti imparati da ragazzo, sono serviti a Rigoni Stern nelle traversie della vita, durante la guerra in Albania, in Russia, e, poi, durante la prigionia nei lager. E’ importante sapere come prendersi cura delle scarpe, come ungerle, sapere che non bisogna accostarle troppo al fuoco perché altrimenti il cuoio si spacca, sapere che «il freddo si vince bene anche mangiando lardo, e che la neve non disseta», «che a stare puliti nel corpo si sente meno il freddo» (ivi, pp. 32-33).

L’esperienza umana ha un carattere unitario, è fatta da tutta una serie di “rimandi”. E in essa rientra anche la cultura. Rigoni Stern sottolinea che Hitler fu sconfitto perché non aveva letto Puškin e Tolstoj e non aveva capito l’anima del popolo russo (ivi, p. 31).

Una parte, seppur autorevole, della critica, ha considerato Rigoni Stern un “nostalgico”, un difensore del “buon mondo antico”, destinato, consapevolmente o inconsapevolmente, alla sconfitta. Scrive Leopoldo Meneghelli: «Rigoni non ha capito che gli orizzonti di montagna apparentemente sconfinati, in realtà si restringono; che essi non possono offrire altro che una libertà “di retroguardia” a pochi individui soli e fuggiaschi – in questi tempi che hanno la triste caratteristica di essere tutto insieme pigri e frenetici, noiosi, melensi, complicati e feroci – ci si può andare a cercare una pace, ma a patto di sapere che non la troveremo e che anche lassù saremo sempre noi stessi, uomini di oggi, senza pace. Allora, sapendolo, la fuga ha un senso («Il Paese», 5 maggio 1962).

Enzo Siciliano («Corriere della Sera», 15 gennaio 1979) mette in risalto la dimensione “picaresca” dell’opera di Rigoni Stern, l’“atavica rassegnazione” delle sue genti alla “fatalità” del lavoro, che costituisce una sorta di “religiosità laica”, “naturale”.

Ma Rigoni Stern non ha il mito del “buon selvaggio”. Egli contrappone ad un altro mito, quello del progresso infinito ed inevitabile, diffuso anche nell’ambito della sinistra italiana, il modello di una società che sappia coniugare sviluppo e continuità col passato. Non per nulla egli attribuisce un ruolo fondamentale alla cultura, che è strumento di emancipazione delle genti e, nel contempo, fa comprendere che chi non ha passato non può avere neanche presente e, men che mai, futuro. Da qui il suo impegno non solo come scrittore, ma anche come operatore culturale, divulgatore. Egli stesso ci parla della piccola biblioteca degli ex combattenti, che ha curato negli anni, per far conoscere anche ai contadini i tesori del sapere: «Alla domenica mattina, dopo la messa, venivano in biblioteca anche dalle contrade lontane. Pagando venti lire potevano avere in prestito un libro per quindici giorni. Gli ex combattenti avevano lo sconto e pagavano la metà. Insomma, che cosa importava se quando li restituivano avevano odore di vacca e di letame e se erano un po’ sciupati? Intanto venivano letti nelle lunghe sere invernali, magari a voce alta, alla tenue luce delle cucine o nelle stalle mentre si aspettava il parto delle vacche. Quelle venti lire per il libro così raccolte e giornalmente registrate servivano per pagare un modesto canone alla vedova che ci affittava la stanza al piano terreno e il cui marito era morto prigioniero in Africa. Riuscivo persino a far rilegare ogni mese una decina di libri da Costantino, un falegname reduce anche lui dalle patrie guerre, che alla domenica e alla sera faceva bene il rilegatore. E riuscivo addirittura a comprare qualche libro nuovo di narratori e poeti, o qualche saggio di storia che istintivamente sceglievo dai cataloghi delle case editrici. Fu così che i miei giovani compaesani poterono leggere Kafka, Faulkner, Babel’, Hemingway, García Lorca, Eliot, i poeti russi, Carlo Levi, Pavese, Vittorini, Gramsci… Queste mie scelte arbitrarie provocarono in paese una certa reazione da parte dei benpensanti che vedevano nella piccola biblioteca un luogo di riunioni sovversive. Ma che belle discussioni in quelle sere invernali! Ma quanto entusiasmo nei nostri discorsi animati da letture che ci avevano fatto scoprire un mondo che fino ad allora ci era rimasto nascosto» (Inverni lontani, cit., pp. 25-26).

Rigoni Stern non ha, dunque, una visione elitaria della cultura, bensì partecipata, in senso gramsciano, che veda cioè come protagonista la gente comune. Perciò perdono senso tutte le polemiche sul suo stile, troppo “semplice”, “scontato”, alimentate da chi ha una visione limitata della letteratura e della cultura.

Rigoni Stern non è scrittore di “idilli”, di “pastorellerie” arcadiche, neanche in opere come Uomini, boschi e api (Einaudi, Torino, 1980; ma si cita sin d’ora dall’edizione 1998). Si è parlato impropriamente di autore di nuove Georgiche. A tal proposito, leggiamo in una nota di Enzo Siciliano: «Rigoni Stern ha scritto la sua “Georgica” in prosa, con uno spirito delicatamente pedagogico, le costumanze dei galli cedroni, delle coturnici, dei fagiani di monte…delle cornacchie e dei bianchi gufi delle nevi. Delle api, e delle variazioni che la loro vita subisce, Rigoni Stern ricostruisce particolari minimi. Allo stesso modo racconta degli usi di lavoro ancora vivi nella sua montagna. […] Tutto ciò Rigoni Sterrn racconta con sapienza candidamente virgiliana» («Corriere della Sera», 11 gennaio 1981).

E Carlo Sgorlon: «La definizione più calzante che si possa dare di Rigoni Stern è quella di sobrio poeta della civiltà alpina. La sua voce pare venire un po’ da lontano perché la civiltà che egli rappresenta è fuori mano, silenziosa, sobria discreta… Rigoni Stern è il poeta, il cronista, l’antropologo, lo zoologo, l’etologo, entomologo, il botanico di questa civiltà» («Il Giornale Nuovo», 11 gennaio 1981).

Lo ripetiamo: lo sguardo di Rigoni è rivolto al passato per proiettarsi sul presente. C’è in lui un progetto di società “autocentrata”, fondata cioè sulla valorizzazione delle risorse esistenti nel territorio di riferimento, sul rapporto armonico tra “ieri” e “oggi”, senza salti che la natura rifiuta («natura non facit saltus»).

Il Nostro ha dato vita ad un genere letterario in parte nuovo, in parte ereditato dall’Illuminismo: quello del saggio breve, a carattere divulgativo, tra lo scientifico e il narrativo, il realistico e il mitico. Sono nati così poemetti della natura, come Il libro degli animali (Einaudi, Torino, 1990), dominati da una lingua nuova, antiretorica per eccellenza, impastata di dialettismi, o, meglio ancora, di parole che hanno un’origine “colta”, ma si sono conservate e consolidate nell’uso dialettale, mantenendo la freschezza primigenia e sfuggendo al contatto usurante con la lingua letteraria. Dietro l’apparente immediatezza c’è il tormento stilistico, la ricerca di una “classicità” di ritorno.

Il bosco diventa per Rigoni Stern un universo narrativo, ricco di simboli, gli animali assurgono al ruolo di protagonisti. La narrazione oscilla tra etologia minima ed epica, la memoria ad un tratto emerge, come un “sentiero sotto la neve” o vino condensato al fondo della bottiglia, per conferire valore universale al fatto particolare. Le storie di caprioli sperduti, abbandonati dalla madre e salvati dai boscaioli, di gufi delle nevi, che, ad un tratto, solcano l’aria, provenendo da mondi lontani, del canto amoroso dell’urogallo e del fagiano di monte, della vita segreta degli alveari, dei cani da caccia, da slitta, da gregge, rivelano segrete corrispondenze della natura.

Rigoni Stern è filosofo nel senso ampio che il termine assumeva in Francia ai tempi di Rousseau, ha una concezione generale del mondo, che non si trasforma, però, in visione religiosa, nel misticismo di Pitagora, nell’individuazione di un’armonia dei numeri che trascende il mondo reale. Se appartiene a quella tradizione culturale che supera ogni “specialismo” e affonda le sue radici nel mondo greco classico, va senz’altro collocato in quel filone che potremmo definire “scientifico” della filosofia, che cerca la spiegazione razionale di ogni accadimento e che, partendo da Talete e dalla Scuola di Mileto, passa per Epicuro, per Aristotele, trovando sbocco naturale nella scienza moderna, che è anche letteratura, come dimostra ampiamente il caso di Leonardo e di Galilei, e nel primato illuminista della ragione. Possiamo concludere che in Rigoni Stern la letteratura, più che essere attività specifica, è il linguaggio della vita.

* Professore di Letteratura italiana e Letteratura italiana contemporanea. Già docente di Letteratura teatrale italiana all’Università di Messina. Collaboratore della Sichuan International Studies University (ChongQing – Cina). Poeta, scrittore, critico letterario. Direttore del Centro Studi “Nino Pino Balotta”.