Le nostre lamiere: letteratura e arte, industria e rivoluzione

Di Gianmarco Pisa*

Relazione di Gianmarco Pisa svolta in occasione del Convegno “L’Arte racconta il Lavoro”, organizzato dal gruppo di lavoro “Arte, Cultura e Comunicazione” del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”, Porto San Giorgio, 14 ottobre 2023.

L’ambito delle forme estetiche e delle produzioni artistiche legate al mondo del lavoro, della produzione e dell’innovazione e, al suo interno, il contesto narrativo specifico rappresentato dal binomio tra letteratura e lavoro (dalla “letteratura proletaria” alla “letteratura industriale”, fino alle più recenti e oblique narrazioni della moderna condizione lavorativa, della solitudine operaia e della precarietà del lavoro) consentono un’esplorazione cruciale per raccontare e re-immaginare il lavoro.

Questa esplorazione manifesta, a sua volta, una duplice portata: come ambito culturale, al cui interno riportare l’attenzione su un passato che contiene ancora istanze di presente e germi di futuro, sulle forme letterarie, sui canoni estetici, sulle problematiche della rappresentazione; ma anche come terreno politico, come spazio cioè, entro cui delineare una prospettiva ed articolare il conflitto, per «ripercorrere i cambiamenti socio-economici e tecnologici del mondo del lavoro della seconda metà del Novecento, attraverso il racconto dell’arte e della letteratura», per ridefinire i contorni della soggettività, per alimentare il conflitto sociale e di classe, per sondare il terreno di una rinnovata egemonia, per ispirare una innovativa battaglia delle idee.

L’obiettivo di queste brevi riflessioni è dunque di fornire un contributo per definire quello specifico ambito di interesse, che è il «racconto del lavoro nella letteratura», segnatamente nella letteratura italiana. Il centro di questo contributo non può che essere allora lo spaccato della cosiddetta “letteratura industriale”, nei cui autori più conseguenti e nelle cui pagine più alte sono già enucleati, di fatto, i termini della questione: il rapporto tra industria e letteratura e tra letteratura e mondo della produzione; tra intellettuali e mondo sociale contemporaneo; tra intellettuali e mondo produttivo; e, infine, il potente binomio «letteratura e classe operaia».

Sviluppatasi a partire dal romanzo d’industria di epoca vittoria­na, con il suo primo capolavoro assoluto, il romanzo “Life in the Iron Mills” (Vita ai laminatoi del ferro, 1861), della grande scrittrice realista e socialista Rebecca Harding Davis (1831-1910), passata poi attraverso la crisi imperialistica e la depressio­ne economica, nel cui contesto pure sarebbe maturato un altro capolavoro del genere, “Kleiner Mann – was nun?” (E adesso, pover’uomo?, 1932) di Hans Fallada (1893-1947), la letteratura industriale si afferma in Italia a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, si ripercuote negli anni Settanta nel nuovo clima di lotte sociali e politiche, e si riaffaccia nel corso degli anni Novanta e oltre, con una nuova stagione, animata dall’inquietudine per i nuovi fenomeni del mondo produttivo (terziarizzazione, precariato, nuove alie­nazioni).

Vi è qui un messaggio di novità e di attualità che il nesso tra letteratura e classe e la questione della letteratura industriale portano con sé: la letteratura industriale si dà, infatti, il compito dello svecchiamento delle lettere e della costruzione di un nuovo profilo intellettuale, oltre che della soggettivazione, nel binomio tra etica ed estetica, del proletariato. In tal senso, la letteratura industriale, maturando dentro le evoluzioni del pensiero di fabbrica, si afferma pienamente in Italia soprattutto negli anni Sessanta.

In uno dei non numerosi saggi nei quali si sviluppano e si approfondiscono i vari temi ed aspetti della letteratura industriale, il volume “Lamiere. La letteratura tra fabbrica e città” (Ad est dell’equatore, Napoli, 2011), si prova non solo a delineare un excursus ma anche a fornire un’ipotesi di periodizzazione su base tematica e stilistica, dapprima con l’epifania dei precursori, Carlo Bernari (1909-1992) e Vasco Pratolini (1913-1991), quindi con la fase matura segnata dai grandi autori del “boom”, non di rado legati alla cosiddetta «esperienza olivettiana», Lucio Mastronardi (1930-1979), Luciano Bianciardi (1922-1971), Ottiero Ottieri (1924-2002), Goffredo Parise (1929-1986), Paolo Volponi (1924-1994), infine, tra gli anni Settanta e Ottanta, ancora con Paolo Volponi e Primo Levi, quest’ultimo con quel capolavoro assoluto che è “La chiave a stella” (1978), per giungere a una più recente stagione (Andrea Bajani, Alberto Prunetti e altri) segnata dalle nuove forme di alienazione, smarrimento, precarietà.

È bene, a tal proposito, osservare che la letteratura industriale non richiede di essere scritta (necessariamente) da membri colti della classe operaia, così come non impone di essere fruita solo dai soggetti appartenenti al mondo dell’industria. Ciò che piuttosto caratterizza essenzialmente questa produzione è la connotazione “industriale” di tale letteratura, in virtù del suo riferimento sociale e del suo disegno politico.

La letteratura industriale fa suo, infatti, il tema portante della produzione di soggettività intellettuale, ha come motore il rapporto tra la produzione intellettuale e il contesto spazio-concettuale abitato dal soggetto, dalla città e dalla fabbrica in tutte le loro connessioni, ed è centrata sulla tematica del protagonismo di classe nelle sue varie articolazioni, sia di carattere materiale (il conflitto sociale a fini rivendicativi e trasformativi) sia di tipo politico (le istanze di soggettivazione, emancipazione, sviluppo, progresso, autodeterminazione).

Il suo scenario è quello della grande fabbrica, delle grandi fabbriche, non solo del Nord: «questi asettici inferni», come li descrive Vittorio Sereni nella sua splendida poesia “Una visita in fabbrica” (1961); ovvero, un’architettura paradossale di «sovrumana bellezza», come appare ad Albino Saluggia nel “Memoriale” (1962) di Paolo Volponi; o ancora, un luogo, al tempo stesso, di speranza e di contesa, come nel “Donnarumma all’assalto” (1959), capolavoro “olivettiano” di Ottiero Ottieri che, di lì a qualche anno, non a caso, avrebbe poi trattato il tema fondamentale dell’alienazione nei termini de “L’irrealtà quotidiana” (1966). Sin dal 1961, lo stesso Ottieri aveva inquadrato la problematica della letteratura industriale con parole destinate a risultare profetiche: «Troppi oggi si augurano il romanzo di fabbrica e troppo pochi sono disposti a riconoscere le difficoltà pratiche (teoriche) che si oppongono alla sua realizzazione. L’operaio, l’impiegato, il dirigente, tacciono. Lo scrittore, il regista, il sociologo, o stanno fuori e allora non sanno; o, per caso, entrano, e allora non dicono più».

Tale (problematico) portato semantico può prendere la forma del romanzo realistico, o darsi le movenze del poema storico-sociale, capace di descrivere un affresco di soggetti, istanze e valori legati alle condizioni di esistenza sul lavoro o in città. In questo senso, per quanto non strettamente connesso alle narrazioni industriali, il realismo socialista, come orientamento estetico generale, viene a manifestare tutta la sua importanza, in termini storici, e tutta la sua innovatività, in termini estetici.

Basti ricordare la definizione che ne diede Andrej Ždanov al I congresso degli scrittori sovietici (1934), in base alla quale compito del realismo socialista è «raffigurare veridicamente la vita, non in modo scolastico e morto, non semplicemente come “realtà oggettiva”, bensì nel suo “sviluppo rivoluzionario” […]. Per questo la letteratura sovietica è “tendenziale”: […] dal momento che la sua “tendenza” consiste nella liberazione di tutta l’umanità dal giogo della schiavitù capitalistica».

Secondo Maksim Gorkij, del resto, «la vita, come affermato dal realismo socialista, è azione, creatività, lo scopo della quale è lo sviluppo ininterrotto delle inestimabili facoltà individuali dell’uomo, con lo sguardo alla sua vittoria sulle forze della natura, per la suprema gioia del vivere sulla terra. […] Come eroe principale noi dobbiamo scegliere il lavoro, vale a dire una persona, organizzata dai processi di lavoro, […] che, a propria volta, così organizza il lavoro che esso diventa più semplice e produttivo, sollevandolo al livello dell’arte» (1934).

Riferirsi alla letteratura industriale significa, dunque, fare capo alla rappresentazione narrativa delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia e del mondo produttivo ad essa legato. Nelle sue fondamentali “Rappresentazioni radicali” (Radical Representations: Politics and Form in U.S. Proletarian Fiction, 1929-1941), Barbara Foley (1993) indica chiaramente che la narrativa industriale è anche un’istanza politica, in quanto deve servire a far avanzare la consapevolezza di classe, attraverso la determinazione della soggettività culturale del proletariato (dalla dimensione di classe in sé alla connotazione di classe per sé), e a far coagulare i temi del pensiero-prassi di classe (dignità operaia, liberazione del lavoro, giustizia sociale). Si tratta – detto per inciso – di una critica formidabile al moderatismo, al gradualismo e all’economicismo della cosiddetta “sinistra tradizionale”, riformista e socialdemocratica.

Ovviamente, la critica formalistica, in tutte le sue varie denominazioni, nel momento in cui gli scrittori del proletariato proponevano una scrittura come strumento della lotta di classe, accentuò la denuncia del presunto intento autorale di subordinare il pregio estetico all’ideologia politica. È possibile ascrivere a questo tema anche il carattere della nota polemica (1946), in Italia, tra Elio Vittorini e Palmiro Togliatti, con la denuncia acutissima, da parte di Togliatti, di «una strana tendenza a una specie di «cultura» enciclopedica, dove una ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorprendente, prendeva il posto della scelta e dell’indagine coerenti con un obiettivo, e la notizia, l’informazione – volevo dire, con brutto termine giornalistico, la «varietà» – sopraffaceva il pensiero. […]

«Manca – continua Togliatti – la costanza nel perseguire il fine proposto; affiora presto una generica irrequietezza, una superficiale ricerca del nuovo; […] rimane, nel migliore dei casi, qualche personalità, che riesce ad affermarsi per qualità sue, e tutto finisce lì, mentre guadagna terreno e finisce per trionfare, senza che nessuno gli sbarri la strada, l’analfabetismo fascista, e la nostra cultura subisce un’azione devastatrice» (Il Politecnico, n. 33-34, settembre-dicembre 1946). Non possono non sorprendere la forza e l’attualità di questa riflessione.

Nella letteratura industriale, come si comprende dunque anche da queste note, il riferimento al marxismo funge da punto nodale, presupposto filosofico e, in generale, contesto concettuale retro-agente.

Se il marxismo aveva fornito alla classe la propria coscienza storico-sociale e i marxisti si erano incaricati di consolidare la consapevolezza soggettiva del proletariato in quanto classe rivoluzionaria ed artefice del futuro, la letteratura industriale, in quanto narrazione di quella soggettività e rappresentazione di quel traguardo, aveva finalmente associato la “parola” alla “cosa” ed istituito il genere (letterario) per raccontare quella specificità (sociale).

La letteratura, e l’arte in generale, hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo essenziale in questo senso: danno forma e immagini a corpi ed eventi; dischiudono interrogativi e sollecitano riflessioni, che devono essere portate in uno spazio collettivo e possono agire nuove realizzazioni e nuovi traguardi.

Riferimenti:

Laura Baldelli, “Raccontare il Lavoro”, Cumpanis, 30 maggio 2023.
Gianmarco Pisa (a cura di),  Lamiere. La letteratura tra fabbrica e città, Ad est dell’equatore, Napoli, 2011.
Rebecca Harding Davis, Vita nelle ferriere. La donna di korl (1861), a cura di Paola Gaudio, Aracne, Roma, 2006.
Hans Fallada, E adesso, pover’uomo (1932), a cura di Mario Rubino, Sellerio, Palermo, 2008.
Ottiero Ottieri, L’irrealtà quotidiana (1966), Guanda, Parma, 2004.
Maksim Gorkij, Intervento al Primo Congresso degli Scrittori Sovietici, Mosca, 17 agosto 1934.
Barbara Foley, Radical Representations: Politics and Form in U.S. Proletarian Fiction, 1929-1941, Duke University Press, Durham NC, 1993.

* Saggista, studioso di questioni internazionali, del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”