Comunisti/e: forma-partito, Il rapporto tra democrazia interna e progetto rivoluzionario

di Fosco Giannini, già senatore della Repubblica e coordinatore nazionale del Movimento per la Rinascita Comunista

Nell’affrontare la questione della forma-partito comunista, il primo nodo da sciogliere è proprio quello legato alla “questione del partito”. Assistiamo ormai da decenni, in Italia ma non solo, a un attacco forsennato alla forma-partito in quanto tale. Tant’è che, sulla scorta di questo attacco proveniente dai media mainstream e dunque dalla cultura dominante borghese, non poche formazioni politiche italiane apparse negli ultimi decenni hanno preventivamente rinunciato al termine partito (dalla Lega a Potere al Popolo, passando per il Movimento 5 Stelle) nella speranza che, sbarazzatisi di questo termine reso “inadeguato e pesante” dall’aggressività ideologica del capitale, tutto poteva essere più facile e più vicina la possibilità di stabilire legami più forti con le masse, con l’elettorato, con il popolo, attraverso una visione delle cose che scadeva, appunto, in un populismo più o meno consapevole proprio a partire dalla scelta di rimuovere la parola “partito”, prima tappa, spesso, di uno scivolamento politico verso inclinazioni populiste che tanto hanno caratterizzato la Lega quanto il M5S di Beppe Grillo. Cancellare il termine “partito” ha voluto dire aderire innanzitutto al quel senso comune di massa, per tanta parte costruito ad arte dalla classe dominante attraverso i suoi portavoce mediatici, che vedeva e tuttora vede (certo, anche per colpa delle varie formazioni partitiche e della loro quasi totale genuflessione agli interessi del capitale) nei partiti la sede primaria della corruzione e dell’“occupazione dello Stato”, in una visione, ecco perché populista, svuotata da ogni coscienza di classe e incline ad addossare tutta la colpa dello sfruttamento oggettivo e sempre più pesante dei lavoratori non più alle contraddizioni di classe e all’attacco di classe padronale, ma “al sistema dei partiti”, alla “partitocrazia” e, dunque, alla stessa forma-partito.

Questo odierno attacco di straordinaria potenza alla forma-partito, peraltro, si ricollega storicamente, e non casualmente, allo stesso attacco massiccio alla forma-partito proveniente dall’aristocrazia e dalla nuova classe storica nascente, la borghesia, nelle fasi della rivoluzione industriale inglese e in quella della rivoluzione francese, nel periodo storico, cioè, in cui la forma-partito, per la prima volta nella storia, prende corpo nell’obiettivo di fornire un’organizzazione politica di lotta al nascente movimento operaio.

Il nascente movimento operaio di quella fase storica non doveva essere organizzato: questo l’obiettivo delle classi dominanti di allora, un obiettivo che le attuali classi dominanti di nuovo perseguono, anche attraverso l’attacco alla forma-partito. Un attacco al quale i comunisti devono rispondere rilanciando con determinazione la loro forma-partito.

Ma quale forma partitica devono rilanciare i comunisti, in Italia?

Non si può rispondere a tale domanda se non mettendo a fuoco i problemi, le deficienze, le degenerazioni che hanno segnato le esperienze concrete dei partiti comunisti che hanno operato, dal processo di involuzione del Pci in poi, nel nostro Paese: la rinuncia alla transizione al socialismo e alla prospettiva rivoluzionaria; la rinuncia, conseguente, alla ricerca politico-teorica antidogmatica e volta ad adeguare continuamente il partito comunista, il suo pensiero, alle nuove fasi storiche e ai nuovi cicli politici e sociali concreti; il conseguente scivolare nell’elettoralismo e nella sua superfetazione; la rinuncia alla costruzione dei “quadri” comunisti attraverso lo studio e l’insegnamento concreto all’iniziativa e alla lotta; la rimozione della concezione e della prassi – leniniste e gramsciane – della costruzione del partito comunista essenzialmente nei luoghi di lavoro e di studio, prioritariamente nei luoghi del conflitto capitale-lavoro; la cancellazione, nella prassi, del centralismo democratico leninista e, dunque, della democrazia interna al partito comunista.

Il rilancio dell’obiettivo della transizione al socialismo e del progetto rivoluzionario possono prendere corpo solo attraverso la ridefinizione, sulla base della totalità del grande pensiero marxista e leninista che ha segnato di sé l’intera storia del movimento comunista mondiale, di un’analisi e di una proposta all’altezza della realtà in divenire e della natura dello scontro di classe presente.

A partire da ciò occorre un partito comunista disposto, al contrario di quanto accaduto negli ultimi decenni, ad “investire” seriamente nel campo della ricerca politica e teorica, nel campo dello studio profondo della fase in cui si opera, superando dogmi e stereotipi, affidandosi solo all’analisi concreta della situazione concreta; occorrerà un partito comunista totalmente incline a spostare energie – politiche, intellettuali ed economiche – nel campo della ricerca e dello studio. A partire dall’assunto leninista principe: “non vi è partito rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria”. Stabilendo, dunque, un nesso preciso tra rimozione del progetto rivoluzionario e abbandono della definizione della teoria rivoluzionaria.

È del tutto evidente che solo a partire da questa, decisiva, assunzione politico-teorica che potranno essere rilanciate le scuole-quadri del partito (da tempo immemorabile, nell’essenza, chiuse, disarmate) e la stessa concezione e pratica della costruzione dei quadri, nell’intento di mettere in campo un partito segnato dalla consapevolezza che non si potrà mai giungere a una linea di massa senza avere un’organizzazione di quadri capace di costruire e sostenere una concreta politica di massa.

La stessa, sempre più frequente, ossessione elettorale, con caduta nell’elettoralismo anche più bieco, è una chiara conseguenza dell’appannarsi del progetto rivoluzionario e dell’abbandono della ricerca di un pensiero rivoluzionario, rimosso il quale, prevale, in automatismo, il ripiego, che allora si assolutizza, della presenza nelle istituzioni. Riflessione che certamente non deve portare i comunisti alla demonizzazione pregiudiziale della presenza e della lotta nelle istituzioni, ma ciò solo a partire dal monito di Lenin: “trasformare il Parlamento borghese nella cassa di risonanza della lotta di classe”.

Speculare a un partito comunista volto a organizzare consenso di massa innanzitutto attraverso la guida della lotta di classe, è la forma-partito comunista che punta essenzialmente ad organizzarsi nei luoghi di lavoro e del conflitto capitale-lavoro, nei punti alti e d’avanguardia della produzione capitalistica.

Sia Lenin, nella lotta contro la concezione dell’organizzazione dei partiti socialisti della II Internazionale (che conoscevano solo l’opzione organizzativa della sezione territoriale), che Antonio Gramsci nelle Tesi di Lione, introdussero con grande spinta politica e forza teorica l’opzione delle “cellule di produzione”, cioè la presenza organizzata e di lotta dei comunisti nelle fabbriche e nei luoghi del lavoro e di studio. Una nuova e rivoluzionaria proposta organizzativa, questa di Lenin e Gramsci, che permetteva al partito comunista di insediarsi direttamente nei luoghi del conflitto capitale-lavoro, di costruire consenso operaio attorno al partito, di costruire quadri dirigenti forgiati nella lotta per l’intero partito comunista, portando la cultura operaia e le istanze della classe operaia all’interno del partito.

Il Pci storico, assumendo in pieno il pensiero sull’organizzazione comunista elaborato da Lenin e Gramsci, già nei primi ’50 poteva contare su circa 56mila cellule di produzione, collocate all’interno delle fabbriche e dei luoghi di lavoro italiani. 56mila cellule di cui ognuna poteva essere formata anche da molti operai e lavoratori, per un esercito di lavoratori comunisti organizzati all’interno stesso dello scontro capitale-lavoro. Una grande e vasta organizzazione in cellule di produzione che Palmiro Togliatti seppe rendere positivamente sinergica all’altrettanto vasta organizzazione del Pci in sezioni territoriali.

Tuttavia, col passare del tempo, l’organizzazione del Pci in cellule iniziò a mano a mano a scemare, sino a scomparire quasi del tutto negli anni ’80 così che si può asserire che la parabola involutiva dell’organizzazione del Pci, abbandonando la lezione di Lenin e Gramsci, si sovrappose e accompagnò quel processo di involuzione che portò il Pci alla “Bolognina” e, poi, al proprio autoscioglimento.

Nessuna delle forze comuniste italiane successive al Pci riuscì, poi, a costruire quell’organizzazione rivoluzionaria in cellule di produzione che Lenin pose alla base della rottura con la Seconda Internazionale e alla base della costruzione dei partiti comunisti della III Internazionale e con la quale Gramsci “modellò” il PCd’I e, con la forza del proprio pensiero teorico e per decenni, lo stesso Pci.

Centralismo democratico/Democrazia interna

Il centralismo democratico rappresenta, tuttora, l’insuperato principio di organizzazione interna dei partiti comunisti, e non solo. Nell’opera di Lenin, Che fare?, del 1902, è descritto per la prima volta il senso, ideologico, politico e organizzativo del centralismo democratico, che prende corpo, nei primissimi anni del ’900, anche attraverso un duro contrasto tra bolscevichi (che sostenevano totalmente lo spirito e la prassi del centralismo democratico e la conseguente concezione della disciplina rivoluzionaria) e i menscevichi (che erano per una versione molto più “lasca” e permissiva delle regole e della disciplina interna ai partiti operai). Tanta fu la forza acquisita sul campo e nella lotta dalla nozione e dalla pratica politica del centralismo democratico, che esso entrò anche nella Costituzione sovietica del 1977, come principio organizzatore dello Stato socialista.

Nel corso dei decenni, peraltro e a dimostrazione del potente nucleo razionale insisto nella concezione del centralismo democratico, esso iniziò a segnare di sé – pur in versioni diverse, e spesso al loro interno contraddittorie, dallo spirito leninista – tanta parte dei partiti, anche democratico-liberali, dei Paesi dell’Occidente, nei quali, ad esempio, non è concesso, per ciò che soprattutto riguarda i ministri e gli eletti al Parlamento, di praticare e manifestare una linea politica diversa da quella decisa dalle loro organizzazioni politiche. E si può asserire che persino alcune forme di governo del mondo occidentale liberale (ad esempio le forme anglosassoni) abbiano assunto la “ratio” del centralismo democratico, nella misura in cui i partiti sostenitori dei governi sono tenuti a far prevalere, in relazione agli esecutivi, la linea delle loro maggioranze e non le posizioni individuali dei ministri, pena la stessa crisi di governo.

Nell’essenza, il centralismo democratico leninista è descrivibile come un principio politico-organizzativo dato dal rapporto dialettico tra “assoluta libertà di discussione e assoluta unità d’azione”. L’aspetto profondamente democratico di questa istanza politica, ideale e teorica è dato dal fatto che essa permette la totale libertà dei dirigenti, dei militanti e degli iscritti del partito comunista nel partecipare alla discussione sulla linea politica e sui fondamentali politico-teorici del partito, ma una volta che la linea è portata a sintesi dalla discussine stessa, ogni membro del partito è tenuto a sostenerla e praticarla, attraverso una modalità e uno “stile di lavoro” che supera l’individualismo e ratifica la superiorità del lavoro collettivo, annunciando, in questo modo, anche elementi stessi del socialismo. Evidenziando alcuni punti fermi del centralismo democratico, possiamo già metterne a fuoco la natura politico-teorica intima:

  1. Libertà di critica e autocritica all’interno del partito.
  2. Disciplina e autodisciplina, anche come forma della costruzione della coscienza rivoluzionaria dei dirigenti, dei militanti e degli iscritti.
  3. Divieto di formazione di frazioni o correnti interne.
  4. Rapporto costante di tutte le strutture del partito con gli organismi dirigenti, in un rapporto dialettico e osmotico tra le parti che, solo, può portare sia a una reciproca e positiva influenza politica tra i segmenti organizzativi che a una direzione politica riconosciuta, forte e rispettata.
  5. Una netta, collettivamente e preventivamente riconosciuta, subordinazione della minoranza alla maggioranza, nell’obiettivo di mettere in campo una formazione organizzativa in grado di sostenere e vincere la lotta di classe.
  6. Le decisioni degli organismi superiori del partito, una volta che il dibattito aperto giunge alla sintesi democratica, devono essere vissuti come vincolanti dagli organismi “inferiori”, con una concezione dell’“inferiorità” legata solamente all’esigenza assoluta, nella lotta antimperialista e anticapitalista, alla funzionalità rivoluzionaria dell’organizzazione.
  7. La messa in campo e l’instaurazione, anche come rivoluzione culturale, del lavoro collettivo e della cooperazione, tra loro, di tutti i “reparti” del partito, in una dialettica che giunga sia al riconoscimento della direzione politica e alle sue responsabilità, che al riconoscimento del valore del ruolo individuale nella direzione politica e alle stesse responsabilità individuali.
  8. Per un partito comunista che si ponga seriamente il problema di una promozione, non per quote ma per linea e prassi politica, degli operai, delle donne e dei giovani alla sua direzione.
  9. Nel partito comunista, gli introiti e gli stipendi e degli eletti e dei funzionari dovranno essere uguali a quelli degli operai e dei lavoratori.

Più volte, nella storia del movimento comunista italiano, le regole rivoluzionarie dettate dal centralismo democratico sono state violate, a favore della centralizzazione del potere nei gruppi dirigenti nazionali e, conseguentemente, come in uno “stile di lavoro” nefasto e trasmissibile, nei gruppi dirigenti territoriali. Particolarmente degenerate, in diverse formazioni politiche italiane comuniste successive allo scioglimento del Pci storico (anch’esso, certo, non indenne, nella sua ultima fase, da accentramento del potere a scapito del volere dei militanti e degli iscritti) sono state le trasformazioni delle segreterie nazionali e dei segretari nazionali, in monarchie assolute e monarchi assoluti, e ciò attraverso una concezione della “necessità” di una guida del partito “forte e autorevole” sempre, in verità, degenerata in assolutismi in grado di portare alla distruzione del partito e alla fuga dal partito dei militanti e dei dirigenti, degli operai, delle donne, dei giovani e degli intellettuali.

Anche sulla scorta di queste, anche molto recenti degenerazioni, si pone con forza e come “unica possibilità”, la ricostruzione, in Italia, di un partito comunista segnato totalmente dallo spirito e dalla prassi del centralismo democratico, dalla totale democrazia leninista interna, dal lavoro collettivo, dalla sollecitazione, e non dalla demonizzazione, da parte dei gruppi dirigenti, della libera discussione politico-teorica interna e poi dalla sintesi politica da tutti rispettata. Per un partito comunista che, proprio nell’assunzione piena del centralismo democratico, non condanni e non emargini il dissenso interno, che non punti a una sua estinzione violenta, ma che punti prioritariamente a costruire un “clima” di rispetto e comprensione delle posizioni di minoranza e, dunque, della maggioranza, volto a unire nella lotta l’intero partito.

Per un partito che combatta al suo interno ogni grande e piccolo “culto della personalità”, a partire dal segretario/a generale sino ai segretari/e di sezione. In una visione generale delle responsabilità di direzione, a ogni livello, quali forme transitorie di “servizio” per il partito, per la comunità.

Per un partito comunista che non perda, nel fuoco della battaglia, la concezione centrale di se stesso come “anticipazione” del socialismo per cui combatte: un socialismo per la classe, per il movimento operaio complessivo, un socialismo come antitesi del capitalismo e della sua concezione del mondo, un socialismo democratico e rivoluzionario che inizia a prendere forma a partire dall’organizzazione politica che lotta per costruirlo.